Chiunque abbia mai installato Italian Night della leggendaria Simulmondo, si ricorderà benissimo la disperazione che solitamente accade verso la fine del primo atto, quando ci si trova nei vicoli umidi di una Venezia notturna, con in tasca solo un gettone telefonico arrugginito, una maschera del Carnevale rotta e una pagina strappata da un manoscritto del ‘500.
La musica jazz-noir in sottofondo, che fino a quel momento aveva cullato l’esplorazione, diventa improvvisamente un martellamento nelle tempie. Il nostro cursore vaga sullo schermo, non sappiamo cosa fare se non ricercare una risposta che il gioco si rifiuta ostinatamente di dare.
Ormai viviamo in un contesto dove i videogiochi ci tengono per mano, riempiendo l’interfaccia di segnalini, aiuti contestuali e "modalità detective" che illuminano gli oggetti interagibili come alberi di Natale o persino personaggi che continuano a parlare in maniera quasi fastidiosa pur di indicarci la via giusta (qualcuno ha detto Atreus?).
Italian Night era l'esatto opposto. A distanza di più di 30 anni dalla sua uscita, questo titolo rappresenta ancora oggi uno degli scogli più duri, affascinanti e punitivi del genere punta e clicca. Un’opera che non chiede semplicemente di essere giocata, ma di essere studiata, capita e, a volte... sì, anche odiata.
L’anti-turismo videoludico
La prima trappola di Italian Night era decisamente la sua bellezza. Il gioco ci seduceva con una rappresentazione del Bel Paese che fuggiva da ogni stereotipo da cartolina. Non c'era il sole splendente della Toscana o il caos allegro di Napoli. Ma un’Italia notturna, piovosa, fatta di architetture gotiche, di musei chiusi, di biblioteche polverose e di bar semivuoti dove il fumo delle sigarette sembrava uscire dallo schermo.
Questa atmosfera serviva a mascherare la brutalità del design. Il gioco ci attirava con la promessa di un giallo interattivo sofisticato, per poi chiuderci a chiave in una stanza senza finestre. La difficoltà di Italian Night non risiedeva infatti, come accadeva in certi titoli degli anni '90, nella cosiddetta "Moon Logic" (ovvero quella logica dove per aprire una porta devi usare un pollo di gomma su una carrucola ehm ehm). No, la difficoltà qui era la peggiore perché era sostanzialmente molto realistica.
Gli enigmi di Italian Night richiedevano una cultura e un’attenzione ai dettagli che noi giocatori moderni abbiamo completamente disimparato (e qui mi ci metto anche io, ovviamente). Per farvi un esempio, per risolvere il puzzle della serratura a Firenze, non bastava trovare la chiave, ma bisognava aver letto i documenti raccolti due ore prima, aver compreso le allegorie di un affresco visto nella hall dell'albergo e aver decifrato un codice basato sulla successione storica delle famiglie nobiliari.
Il gioco non ti diceva: "Ti serve l'indizio A". Il gioco ti metteva davanti a un mondo coerente e ci diceva: "Io ti do tutte le informazioni, ma spetta te arrangiarti".
Il silenzio del cursore
Ciò che rendeva Italian Night un'esperienza quasi mistica era il suo rifiuto totale dell'assistenzialismo. Non c'era un tasto per evidenziare gli hotspot come già citato, ma non c'era nemmeno un diario che si aggiornava automaticamente dicendoci "Ora dovrei andare al porto". Se il protagonista riceveva un'informazione criptica durante un dialogo, stava a noi (muniti di carta e penna reali, sulla scrivania) annotarla.
Questo approccio era incredibile e creava un livello di immersione quasi paradossale. C'era questa benedetta frustrazione di non sapere cosa fare che diventava la frustrazione del protagonista stesso. Io non lo giocai appena uscito, anche perché ero un bambino e lo recuperai solo una decina di anni fa, ma ricordo che si iniziava a ragionare in modo molto laterale. Si tornava indietro a rileggere le descrizioni degli oggetti nell'inventario, cercando quel doppio senso, quella sfumatura che magari ci era sfuggita.
Ricordo ancora il famigerato enigma della macchina per l'espresso a Roma. Io ero rimasto bloccato per giorni e la soluzione non richiedeva di combinare oggetti a caso, ma di capire i principi della pressione idraulica descritti in un vecchio manuale tecnico trovato nel retrobottega.
Era logico? Assolutamente sì. Era facile? Per nulla. Era gratificante? Quando quella macchina ha finalmente sibilato, aprendo il passaggio segreto, ammetto che la scarica di dopamina è stata superiore a quella di qualsiasi vittoria in un battle royale odierno.
Una sfida all'intelletto, non ai riflessi
Oggi, il mercato delle avventure grafiche si è diviso in due tronconi: da una parte le esperienze puramente narrative (alla Telltale o Life is Strange), dove il gameplay è un leggero condimento alla storia; dall'altra i revival nostalgici che però, spesso, limano gli spigoli del passato per non spaventare i nuovi utenti.
Italian Night se ne frega di entrambi. È un gioco che ha il coraggio di essere sgradevole. Ti costringeva al backtracking non per pigrizia di design, ma perché l'indagine richiedeva di tornare sulla scena del crimine con occhi nuovi. E attenzione, perché il titolo aveva pure un tempo limite e se non riuscivamo a risolvere l'indagine in tempo... Game Over.
Era un gioco che ti costringeva a combinare oggetti in modi che richiedono una comprensione fisica del mondo. È un titolo che presupponeva che noi fossimo intelligenti. Non "intelligente da videogioco" (ovvero capace di capire che il barile rosso esplode), ma intelligente nel senso di capace di deduzione, analisi e sintesi.
Si può quasi scrivere che Italian Night ci abbia insegnato che la soluzione non è sempre a un click di distanza. A volte, la soluzione richiede di spegnere il gioco, andare a dormire, e svegliarsi la mattina dopo con l'illuminazione improvvisa mentre si fa colazione (sì, un po' come il meme del cervello che parla nel sonno).
Quella sensazione di "portarsi il gioco dietro" anche a PC spento è una magia che solo le avventure grafiche più complesse riuscivano a evocare. Siamo onesti.
L'eredità di un incubo bellissimo
Ironico ma vero, a volte ci chiediamo perché i forum sono ancora pieni di gente che chiede aiuto per il codice della cassaforte a Napoli o per l'enigma delle campane a Bologna.
Io penso che il perché sia semplice: Italian Night rispettava e rispetta ancora il giocatore. La sua difficoltà non era artificiale. Vero, c'era un timer per completarlo (ma è piuttosto lungo), ma non c'erano Game Over ingiusti. Superare un blocco in questo gioco ci faceva sentire dei geni, proprio perché il gioco ha fatto di tutto per farci sentire un vero stupido fino a un secondo prima.
Ho voluto ricordare Italian Night perché secondo me c'è ancora spazio per la complessità. Alcuni di noi vogliono essere detective e magari sentirsi persi nella nebbia di Milano, vogliono la soddisfazione di aver risolto il caso non perché il gioco ci ha guidato, ma nonostante il gioco abbia cercato di fermarci.
Italian Night senza soluzione rimane ancora oggi un vero e proprio sentiero di montagna impervio, scivoloso e privo di indicazioni. Ma la vista che si gode dalla vetta, quella schermata finale conquistata con sudore e appunti scritti a mano, è qualcosa che nessun tutorial potrà mai replicare. È la prova che, a volte, il divertimento più grande nasce dalla sfida più intransigente e sono sincero... mi piacerebbe rivivere qualcosa di simile.