Perché piratare è un po' come morire (ma non sempre)

Quando si parla di pirateria è l'aspetto economico il primo a venire in mente, ma ce ne sono altri da considerare

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a cura di Fabio Canonico

Qualche giorno fa sul nostro canale YouTube abbiamo pubblicato un video nel quale Andrea Riviera e Giulia Serena hanno discusso di una problematica che, in misura più o meno rilevante, ma comunque in maniera annosa, affligge il mercato videoludico: la pirateria. Se su console varie questioni tecniche hanno sempre limitato il fenomeno su PC questo è sempre stato presente: lo era trenta (e passa) anni fa e lo è tutt'ora, a scorno di tutte quelle soluzioni che dovrebbero arginarlo. Non c'è Denuvo che tenga, quando i cracker decidono di smantellare le difese di un videogioco lo fanno, ed è tutto sommato piuttosto semplice, tra torrent e siti appositi, recuperarne la versione piratata, nella stragrande maggioranza dei casi persino a poche ore dalla pubblicazione.

Nella loro trattazione del problema Andrea e Giulia hanno discusso soprattutto in termini economici, perché è proprio il danno economico il primo effetto della pirateria. Si tratta di un danno dall'entità difficilmente quantificabile però, perché ogni dato pubblicato in relazione è da prendere con le pinze. Come è francamente difficile immaginare che la pirateria, secondo uno studio ormai vecchio (2010), produca 50 miliardi di dollari di mancati introiti e costi mezzo milione di posti di lavoro, è altrettanto improbabile che faccia l'esatto contrario, come affermato da uno studio finanziato nel 2017 dall'Unione Europea, per il quale la pirateria addirittura incoraggia ulteriormente il consumo di materiale d'intrattenimento, dai film alla musica ai videogiochi.

Il fatto che sia quasi impossibile dare una dimensione al danno economico provocato dalla pirateria non la rende comunque giustificabile. È indubbio che piratare un gioco abbia un effetto sul mercato, grande o piccolo che sia, e non può essere una scusa “pirato un gioco che comunque altrimenti non comprerei”. Se non è rubare piratare di sicuro ci va assai vicino, e se lo si fa è perché si ha la certezza di non subire una punizione. Quindi il danno economico è sicuro, anche se non nelle dimensioni, mentre per ciò che attiene alla dimensione etica il discorso è abbastanza semplice: non andrebbe fatto.

Pensare però che le persone agiscano sempre e comunque in base a un'etica condivisa è piuttosto ingenuo. In primo luogo perché, come detto, in mancanza di una punizione certa le maglie dell'etica si allargano sensibilmente, e in second'ordine perché l'etica condivisa può non essere universale. Il videogioco è un bene di lusso, siamo d'accordo, senza il videogioco si sopravvive, ma questa è una visione piuttosto semplicistica, che proprio noi che ci occupiamo del raccontare il medium dobbiamo rifuggire. L'importanza che noi diamo al videogioco è, soprattutto, culturale, e se mangiare e avere un tetto sopra la testa vengono prima di tutto immediatamente dopo c'è, almeno per me, la possibilità di accedere a tutto ciò che è cultura. Sotto questo punto di vista, quindi, la pirateria potrebbe essere per alcuni un modo per fruire di un medium altrimenti inaccessibile, ed ecco quindi come i confini dell'etica condivisa possano essere messi in discussione.

Casi limite, ovviamente, perché lo so io e lo sapete voi lettori che la stragrande maggioranza di chi pirata lo fa anche se potrebbe acquistare. E qui la questione culturale si ribalta totalmente. Se l'idea che qualcuno possa piratare proprio perché riconosca il valore culturale del medium ma non possa accedervi per cause economiche ha qualcosa di persino romantico (ed è infatti proprio il vessillo della libera fruizione quello che molti cracker innalzano), l'opposto produce un disvalore culturale, prima ancora che economico.

È vero che non può essere il denaro la misura del tutto, ma proprio il fatto che non si investa del denaro su un videogioco quando ce lo si potrebbe permettere ne umilia il valore culturale, non in senso assoluto, ma ai nostri stessi occhi, perché è un colpo che diamo alla nostra passione. Magari non piratare un singolo gioco, ma ricorrere alla pirateria in maniera frequente e intensiva significa mortificare un qualcosa che per noi dovrebbe essere importante. Perché poi, come hanno fatto alcuni nei commenti al nostro video, si può arrivare persino a vantarsi di piratare i giochi, ma quale può essere la passione o l'interesse di una persona verso qualcosa se non è disposti nemmeno a spenderci dei soldi? Uno che si vanta di piratare tutto è un povero di spirito; non un furbo, ma uno stupido, perché è lui il primo che ridicolizza quella che dovrebbe essere un'ardente passione.

E poi c'è la questione fruizione. È inutile negarlo, diamo più valore alle cose per le quali abbiamo speso e acquistare un videogioco significa avere un approccio diverso nel fruirne. Partiamo da un rispetto diverso nei suoi confronti, che è al tempo stesso un volano di entusiasmo per quanto di positivo ci offre e uno strato extra di protezione dai suoi aspetti negativi, che potrebbero allontanarcene.

Tutto questo è sicuramente valido fin quando un gioco è disponibile sul mercato o è facilmente acquistabile. Quando si parla di produzioni di quaranta, trenta o anche vent'anni fa è veramente difficile anche solo utilizzare la parola pirateria per definire il loro recupero, che a quel punto passa attraverso l'emulazione. È vero, oggi c'è una certa attenzione al recupero del passato, ma porting, remaster e remake sono solo raramente la soluzione ideale: perché spesso sono realizzati male, perché, semplicemente, sono giochi diversi dagli originali, perché, ancora oggi, la retrocompatibilità da qui a vari anni è garantita solo su PC e perché, ovviamente, perché non tutti i titoli del passato sono oggetto di porting, remaster e remake.

Per intenderci: sarei molto contento, per esempio, se Nintendo portasse domani su Nintendo Switch la versione in alta definizione di The Legend of Zelda: Twilight Princess; pur avendola già su Wii U dovrei ricomprarla per poterla giocare anche sulla console ibrida, e la cosa mi irriterebbe assai. Ancora, sarei molto contento di giocare per la prima volta a Chrono Cross in maniera consona, e non smarmellato sullo schermo dagli ignobili filtri che Square Enix continua a utilizzare per riproporre i giochi delle epoche SNES e PlayStation.

Personalmente, ancora, trovo allucinante che nessuno abbia ancora implementato nei giochi retrò dei filtri atti a replicare l'esperienza visiva che si aveva su televisione a tubo catodico, perché è su tubo catodico che ci giocavamo, ed era tutt'altra cosa rispetto al vederli sui pannelli moderni. I giochi di una volta non ve li ricordate più belli solo perché eravate giovani e ingenui, ma anche e soprattutto perché erano più belli! Di fronte a una situazione simile, si può davvero dire che emulare un gioco di decenni fa, utilizzando tutta una serie di accorgimenti atti a rendere l'esperienza quasi identica a quella originale, perché è l'unico modo per fruirne bene, sia pirateria?

Confini, effetti, portata, natura di tutti quei discorsi che ruotano attorno alla parola pirateria sono quindi molteplici e decisamente più profondi e sfaccettati di quanto certe semplificazioni, operate dall'industria (“piratare è rubare, sempre e comunque”) e dai giocatori (“questo lo scarico, tanto non faccio un danno a nessuno”), affermerebbero. Ognuno di noi, alla fine, risponde solo a sé stesso: quello che è necessario capire, probabilmente, è che non dovrebbe farlo tanto in termini economici e per certi versi nemmeno etici; piuttosto, dovrebbe dare un peso alla propria passione, con il rispetto, la considerazione e la cura che essa meriterebbe.