Stadia, N-Gage e gli altri: quando una buona idea non basta

Ci sono console, tecnologie e prodotti destinati a lasciare il segno... E altri che proprio non ci riescono, riscopriamoli insieme!

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a cura di Michele Pintaudi

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La storia dei videogiochi è un racconto che ha inizio ormai 70 anni fa, con i primissimi progetti di carattere universitario che diedero vita, perlopiù inconsapevolmente, a una rivoluzione che ancora oggi non accenna a fermarsi. Stiamo parlando di un processo che, un passo alla volta, ha letteralmente trasformato l’industria dell’intrattenimento per come la conosciamo: guardando indietro, è sorprendente vedere da dove siamo partiti e realizzare a che punto ci troviamo ora.

Le tante rivoluzioni sono figlie di sperimentazione, coraggio e talvolta di un pizzico di spregiudicata fortuna. Esatto: anche questo è un ingrediente spesso fondamentale nella buona riuscita di un progetto, qualunque sia la natura dello stesso. Se la storia del medium videoludico è ricca di successi come il NES, la prima PlayStation, e il più recente Game Pass, è anche vero che esistono prodotti e tecnologie il cui destino non è stato proprio dei più felici.

Oggi vogliamo parlare proprio di questo: la fine di Stadia, decretata dopo anni con pochi alti e troppi pochi bassi, apre infatti la strada a una serie di interessanti spunti di riflessione. Si tratta di un caso dove una buona idea, complice tanti elementi che andremo ad analizzare, non è bastata a scongiurare un grosso buco nell’acqua. E la storia, ahinoi, è piena di casistiche simili: (ri)scopriamole insieme, cominciando con un bel salto indietro nel tempo…

Videogiochi: quando il buco nell’acqua è dietro l’angolo.

Partiamo con una doverosa premessa, legata alla natura delle diverse casistiche di cui vi andremo a raccontare. Come potrete osservare, spesso e volentieri i prodotti citati si riveleranno dei passi falsi senza averne troppe colpe o responsabilità: sono infatti innumerevoli i fattori che possono decretare il successo o il fallimento di un qualunque prodotto, e il tempo è uno dei più spietati tra questi.

Il primo esempio di cui vogliamo parlare ci porta alla seconda metà degli anni Settanta, agli albori di quella che è la moderna storia dei videogiochi. È qui che facciamo conoscenza di Jerry Lawson, ingegnere della Fairchild Camera and Instrument con in testa un progetto davvero molto ambizioso: una console domestica che potesse, in qualche modo, riprodurre giochi diversi a seconda delle varie esigenze dell’utente. Come? Potendo scambiare a proprio piacimento il gioco stesso, ad esempio tramite delle apposite cartucce…

Dopo mesi di lavoro in cui Lawson dedicò anima e corpo al progetto, nel novembre del 1976 arriva sul mercato Fairchild Channel F: la prima console casalinga della storia dotata di cartucce intercambiabili, una vera e propria rivoluzione su tutta la linea! Se ci pensate, del resto, ha tutto inizio da qui: oggi diamo praticamente per scontata la possibilità di poter saltare da un titolo all’altro, ma se non fosse per Mr Lawson le cose sarebbero forse andate molto diversamente.

L’uscita della console costrinse l’allora colosso dell’industria Atari a prendere le dovute misure, accelerando i lavori su quello che sarà un altro dispositivo rivoluzionario. L’Atari 2600 uscirà qualche mese dopo e sarà un successo su tutta la linea, arrivando a sovrastare la console firmata Farchild. Le ragioni?

  • Mentre Channel F offriva titoli perlopiù di carattere educativo/intellettuale, Atari poteva contare su giochi d’azione convertiti direttamente dai cabinati arcade che già distribuiva in tutto il mondo;
  • La console ideata da Lawson contava appena 32 titoli venduti a un prezzo medio di 20 dollari (pari a circa 91 dollari oggi, tenendo conto dell’inflazione), mentre Atari 2600 vantava un catalogo con più di 300 videogiochi tra cui scegliere;
  • Molto importante fu anche l’impatto a livello marketing, con Atari che sferrò tutta la sua potenza di fuoco per promuovere la sua nuova grande innovazione: Fairchild, peraltro inesperta nel settore, non potè reggere in alcun modo il confronto.

Nel giro di pochissimi mesi Atari 2600, nonostante fosse uscita un anno dopo Channel F, la superò di molto in termini di vendite: un successo che durò per moltissimi anni, e che condannò al dimenticatoio quella che era stata la prima console dotata di cartucce della storia. Un’idea pionieristica insomma, che purtroppo non era bastata.

Tra i grandi nomi di quel periodo spiccava già quello di Nintendo, che nel luglio 1983 lanciò il leggendario Nintendo Entertainment System, per gli amici NES. Un successo senza precedenti, bissato nella decade seguente con il Super Nintendo e con l’incredibile Nintendo 64. Il colosso nipponico è dunque una di quelle realtà che sin dagli inizi ha saputo come imprimere il suo nome a caratteri cubitali in un’industria che, col passare degli anni, diventava sempre più importante sotto ogni punto di vista.

A questi successi si affiancarono però, inevitabilmente, anche dei grossi passi falsi. Negli ultimi anni, dopo tantissima sperimentazione e dopo una serie pressoché infinita di tentativi riusciti a metà, la realtà virtuale si sta finalmente trasformando in qualcosa di degno di essere incluso e riconosciuto nel mercato del gaming. Se si è arrivati a questo punto, però, il “merito” è anche di un gigantesco flop come fu Virtual Boy: il tentativo con cui Nintendo, nel 1995, mirava a creare una console improntata alla VR.

Il risultato finale? Un prodotto che voleva essere anche portatile, strizzando l’occhio al grande successo che Game Boy stava raccogliendo in tutto il mondo, ma che era fin troppo complesso per esserlo davvero. Senza tralasciare un parco titoli di dimensioni eccessivamente ridotte (ne furono pubblicati appena 22) e dalla qualità non particolarmente degna di nota. Il vero problema era però nell’esperienza d’uso: l’utente giocava indossando un visore che, a causa della tinta dell’unico colore utilizzato - un rosso tenue ma perpetuo - arrivava a provocare dei forti mal di testa.

L’idea di base era insomma valida, e negli anni seguenti verrà riproposta in tante concezioni diverse fino ad arrivare ai vari Oculus, HTC Vive e PS VR che possiamo ammirare oggi… Ma Nintendo decise di chiudere una volta per tutte il capitolo realtà virtuale, dedicandosi esclusivamente ad altro. Le vendite di Virtual Boy furono infatti tutto fuorché esaltanti, per un prodotto che pubblico e critica si trovarono a bocciare all’unanimità. Un vero peccato.

Un salto avanti di qualche anno vedrà Nintendo a dominare il mercato con quella grande innovazione che fu Wii, per la quale a un certo punto divenne necessario ideare un degno successore. Ecco allora che nel novembre 2012 arrivò sul mercato Wii U, che purtroppo non riuscì a raggiungere neanche minimamente gli obiettivi dell’azienda di Kyoto.

Le cifre impietose parlano infatti di appena 14 milioni di unità vendute contro le 101 di Wii: un buco nell’acqua causato da un supporto carente o addirittura assente verso proprietà intellettuali di terze parti, ma anche da una strategia promozionale completamente sbagliata. Il marketing di Nintendo promosse la console praticamente come un dispositivo ibrido sia casalingo che portatile quando in realtà non lo era affatto, senza contare le prestazioni al di sotto delle promesse fatte in fase di presentazione. Fortunatamente, come spesso accade in storie come queste, una caduta è l’occasione perfetta per rialzarsi e ripartire: imparando dai propri sbagli Nintendo ha dato vita a un prodotto innovativo e originale come Switch, portando davvero l’esperienza di gioco a quegli standard che oggi tutti noi possiamo apprezzare. Sbagliando si impara insomma, e questo è forse uno degli esempi più significativi della storia del videogioco.

Portatile è bello! Oppure no?

Tra i vari nomi che abbiamo citato non vi sarà sfuggito, con tutta probabilità, l’indimenticabile Game Boy: il modo con cui Nintendo, ormai più di trent’anni fa, ha ridefinito l’intero concetto di gaming portatile. Si trattava infatti di un prodotto incredibilmente all’avanguardia, che proprio per questa sua caratteristica riuscì a fare breccia nel cuore dei videogiocatori da ogni parte del mondo.

Negli anni a seguire la piccola console giapponese si arricchì di tante evoluzioni in grado di renderla un prodotto ancora più unico, migliorando passo dopo passo le già interessanti caratteristiche dello stesso. Non mancarono ovviamente molti, moltissimi tentativi di copiare quella che ormai era divenuta un’icona: alcuni di essi fallirono perché mere copie senza molto da raccontare, mentre altri erano in fin dei conti delle buone idee dotate di una propria identità. Vediamo qualche esempio.

Siamo nel 2003, e il mercato della telefonia mobile è uno di quelli con la maggior crescita nell’intero panorama economico mondiale. L’attore protagonista non era però né Samsung né tantomeno Apple, con il primo modello di iPhone che vedrà la luce solo nell’estate del 2007. L’azienda numero uno era Nokia, che rappresentava una vera e propria potenza quasi irraggiungibile nel settore.

Forte della propria posizione dominante, il colosso finlandese decise di lanciare sul mercato N-Gage: un ibrido tra un telefono cellulare e una console portatile, che alcuni di voi probabilmente ricorderanno molto bene. La campagna pubblicitaria a sostegno del prodotto fu infatti molto importante, e fu sostenuta dalla presenza in catalogo di titoli davvero interessanti: da Rayman 3 a Tomb Raider, passando per The Sims e Crash Nitro Kart. Ce n’era davvero per tutti i gusti insomma, per una console che poteva davvero essere qualcosa di rivoluzionario.Peccato che il design di N-Gage non lo rendeva un prodotto particolarmente comodo, né come telefono né come console. Per inserire le cartucce di gioco era infatti necessario disinserire la batteria, per una scelta tutto fuorché confortevole per l’utente medio: una limitazione al quale se ne univano altre, le quali rappresentavano dei passi indietro rispetto agli standard dell’industria di quel periodo.

Il display colorato di N-Gage era infatti a 12 bit, contro i 16 di molti dispositivi già in commercio all’epoca, senza contare l’assenza di fotocamera, radio e supporto ai file mp3. Il risultato finale? Dopo un primo tentativo di abbassare il prezzo (che al lancio, in Italia, ammontava all’allora assurda cifra di 339 euro) Nokia decise di trasformare N-Gage in un software, da integrare all’interno dei successivi modelli di cellulare. L’abbandono del sistema operativo Symbian in favore di Windows Phone nel 2011 mise la parola fine su un progetto che portò alla vendita di 3 milioni di dispositivi: non un completo disastro, ma comunque molto meno di ciò che ci si poteva aspettare.

Sempre seguendo il filone di quei prodotti che hanno provato a replicare, a loro modo ma senza riuscirci, il successo di Game Boy troviamo un altro prodotto degno di menzione. Vi ricordate di Gizmondo? Se siete stati adolescenti nella prima metà degli anni Duemila, molto probabilmente ne avrete già sentito parlare.

Siamo nel 2002 e Tiger Telematics, azienda svedese del settore elettronico, cominciò a lavorare su un sistema GPS pensato per il tracciamento degli spostamenti dei bambini: un modo per i genitori di tenere sempre sotto controllo i figli, ma che a lato pratico non sembrava particolarmente comodo per nessuna delle due parti. Fu per questo che Carl Freer, fondatore di Tiger, venne colpito da un’illuminazione: integrare al dispositivo un sistema videoludico, trasformandolo di fatto in una vera e propria console portatile.

Dopo qualche anno di sviluppo ecco arrivare sul mercato Gizmondo, con una presentazione in pompa magna impreziosita dalla presenza di star come Pharrell Williams, Jamiroquai e Sting e dall’apertura di uno store dedicato in Regent Street, a Londra. Era il marzo del 2005, e da lì cominciò una rovinosa caduta che colpì tutti i dipendenti dell’azienda. Qualcuno ai piani alti, in poche e semplici parole, si era perso qualche importante lezione di economia all’università.

Tiger impiegava infatti gran parte delle sue risorse in feste e dispendiose iniziative di marketing, tralasciando un aspetto non proprio secondario come lo sviluppo del progetto Gizmondo. Un esempio di queste spettacolari iniziative lo troviamo alle 24 Ore di Le Mans 2005, alla quale uno dei dirigenti dell’azienda prese parte a bordo di una Ferrari 360 Modena interamente brandizzata per l’occasione. Il risultato finale di questi comportamenti al limite della chiarezza? Pochi giochi, un supporto pressoché inesistente e persino una carenza o addirittura assenza del prodotto sugli scaffali.

A condire il tutto troviamo infine un dossier di una nota rivista di economia che accusava le alte sfere dell’azienda, tra cui lo stesso Freer, di aver intrattenuto legami con associazioni mafiose intascando peraltro la cifra di 3.5 milioni di dollari. In maniera illecita, e tramite l’utilizzo di un’altra azienda a fare da prestanome. Gizmondo venne ritirata dal mercato dopo appena un anno e a fronte di appena 30.000 unità vendute: un’occasione persa, anche e soprattutto per il fatto che il potenziale c’era eccome.

A differenza di N-Gage, la piccola console di Tiger poteva contare su un hardware in grado di riprodurre persino i video in formato MP4, oltre che su un processore Samsung a 400 MHz e su una scheda grafica in grado di riprodurre 1 milione di poligoni al secondo. Specifiche che oggi magari fanno sorridere, ma che per i tempi potevano realmente rappresentare un valore aggiunto in un mercato dove emergere era sempre più difficile.

Chiudiamo questo excursus nel mondo delle console portatili - che nei prossimi mesi andremo ad approfondire con un contenuto ad hoc - parlando di PlayStation Vita, forse il più grande rimpianto dell’ultima decade dell’industria del videogioco. Partiamo da un minimo di contesto: siamo nella seconda metà degli anni Duemila, e PSP sta superando ogni record di vendita catturando sempre più appassionati da ogni angolo del mondo. I numeri parleranno di più di 80 milioni di unità distribuite in tutto il mondo, per un successo che spinse Sony a voler alzare ulteriormente l’asticella.

Il 6 giugno 2011, a seguito di tante voci di corridoio e in occasione dell’E3 di Los Angeles, il colosso giapponese annunciò ufficialmente PlayStation Vita: dispositivo nato con l’obiettivo di rendere ancora più spettacolare la già impressionante esperienza di gioco che, negli anni precedenti, PSP aveva regalato a milioni di utenti. E anche qui le premesse erano davvero incoraggianti: dallo schermo touchscreen OLED a 16 milioni di colori fino a due fotocamere, passando per la possibilità di sfruttare una connessione 3G e per una CPU Quad-Core. In poche parole? Una macchina davvero potente, se consideriamo che si trattava di una “semplice” console portatile.

Cosa non funzionò? A livello di hardware si può appuntare ben poco a Sony, che fu in grado di realizzare un prodotto capace di rispettare tutte le promesse fatte e, dati alla mano, di offrire prestazioni ancora superiori alla buona vecchia PSP. Non abbastanza però per fronteggiare un’altra, grandissima console portatile che in poco tempo diverrà iconica e quindi del tutto insuperabile: Nintendo 3DS, uscita giusto pochi mesi prima di PlayStation Vita.

Il confronto in termini di vendite ci restituisce uno scenario che lascia poco spazio all’immaginazione: mentre la nuova creatura targata Nintendo superò gli 80 milioni di unità vendute Vita non andò oltre le 16, ma parte della colpa fu proprio di Sony. L’azienda non ha infatti mai investito davvero nel supporto e nella realizzazione di titoli che potessero davvero spingere all’acquisto della console, esattamente il contrario di quanto fatto da Nintendo praticamente nel corso di tutta la sua storia.

Con un po’ di attenzione in più da parte della casa madre oggi staremmo parlando di tutt’altra storia, ma del resto l’industria dell’intrattenimento è ricca di momenti in cui una piccola azione va a cambiarne per sempre la storia. N-Gage, Gizmondo e PlayStation Vita sono tre esempi di come avere molte risorse a propria disposizione non sarà necessariamente sinonimo di successo. Talvolta c’entra la fortuna e altre volte entrano in gioco aspetti altrettanto imprevedibili, mentre in alcuni casi è semplicemente vero che errare è umano. Tutto qui.

Cloud Gaming: troppa fretta, o troppo e basta?

Innovazione e sperimentazione, come abbiamo visto, sono due degli elementi cardine del videogioco: componenti fondamentali per l’evoluzione dello stesso, che però non sempre risultano al passo con i tempi. La storia ci insegna come spesso e volentieri l’innovazione giusta sia arrivata nel momento sbagliato, sia esso troppo avanti o troppo indietro in termini temporali.

Ricordate OnLive? Siamo nel 2009, e nella stupenda cornice della GDC viene annunciato un servizio che faceva proprio dell’innovazione il suo cavallo di battaglia. Si trattava di un sistema di distribuzione videogiochi on demand rental: i titoli potevano essere noleggiati per un determinato periodo di tempo, che andava da pochi giorni fino ad un massimo di tre anni. I singoli giochi costavano da 9.99 a 49.99 dollari, e prima dell’acquisto era possibile provarli per un periodo di tempo limitato (dai 30 ai 60 minuti).

A sposare il progetto troviamo grandi nomi come Electronic Arts, Take-Two, Ubisoft, Atari, THQ e molte altre realtà del settore, pronte a rendere i loro capolavori disponibili sulla piattaforma. Al lancio, avvenuto nell’estate 2010, pubblico e stampa di settore si dimostrarono sin da subito entusiasti all’idea di scoprire le mille potenzialità di questa grande rivoluzione… Ma le cose non andarono come previsto.

L’idea di base era davvero geniale, e di fatto andava ad anticipare tutti quelli che sono i servizi di cloud gaming che oggi popolano il mercato: peccato che, ahinoi, i tempi non erano maturi. Se in molte zone del mondo la banda larga è ancora oggi un miraggio, nel 2010 si trattava di qualcosa di assolutamente irraggiungibile se non nei grandi centri abitati. Erano in pochi, insomma, a potersi permettere le risorse adatte a sfruttare una tecnologia del genere.

Tale aspetto andò inevitabilmente a condizionare l’andamento del progetto, tanto interessante quanto penalizzato da una tecnologia non ancora pronta ad abbracciarlo nella maniera adatta. Il risultato finale? Nel 2015 OnLive chiuse i battenti, ma la sua storia non finì certo qui. Si erano infatti gettate le fondamenta per qualcosa di pionieristico, e Sony riuscì a fiutare l’occasione: decise dunque di rilevare la società, impiegando l’infrastruttura per quello che oggi è PlayStation Now.

Da un progetto che, possiamo dire incolpevolmente, non è andato a buon fine è insomma nato qualcosa di importante: pensiamo a quanti servizi abbiamo oggi a disposizione, ognuno con una sua evoluzione di quello che quindici anni fa fu il progetto di OnLive. Se quest’ultimo non fu troppo fortunato per una questione legata ai tempi, troppo precoci per un salto in avanti di questo tipo, in altre occasioni troviamo casistiche dove anche le migliori condizioni non riescono a portare al successo sperato.

Il caso più recente è forse quello di Google Stadia: servizio di cloud gaming con cui il colosso Mountain View ha provato a dire la propria in un mercato in continua espansione. Ai tempi del lancio, avvenuto nel 2019, la situazione sembrava tutto fuorché sfavorevole: Google possedeva infatti le risorse necessarie a sviluppare e supportare nel modo corretto un progetto del genere, e la tecnologia aveva compiuto passi sufficienti a evitare gli errori commessi da servizi come OnLive.

Ma questo non bastò e, dopo una presentazione in grande stile a seguito della quale in molti urlarono al miracolo, Stadia non riuscì mai a decollare davvero. Le ragioni? Tante, troppe e spesso e volentieri causate proprio dalla stessa Google. L’azienda non fornì mai un sostegno reale al progetto, promettendo lo sviluppo di titoli in esclusiva che non sono mai arrivati ma, soprattutto, non investendo nella maniera corretta per ampliare il catalogo da offrire ai giocatori. Il tutto condito da una richiesta, in termini di requisiti di rete, ancora troppo elevata per buona parte dell’utenza: un aspetto che, alla luce delle ampie possibilità di ottimizzazione presenti oggi, poteva e doveva essere curato con più attenzione.

Il servizio sta ora per essere dismesso, e la sensazione di base è una soltanto: spesso avere le giuste risorse, economiche e non solo, può non bastare per creare una vera e propria killer application. In un settore dove i player principali sono pochi e consolidati da anni, Google non è riuscita a entrare e molto probabilmente faticherà a dire la propria anche nei decenni a venire: è la dura legge di un mercato che, a conti fatti, riesce ad affascinare anche e soprattutto grazie alla sua imprevedibilità.

Chiudiamo con un ultimo esempio, citando un altro servizio di cloud gaming che sembra partire con le giuste premesse: Amazon Luna, che lo scorso anno ha finalmente debuttato negli Stati Uniti. Una superpotenza come Amazon non ha certamente bisogno di presentazioni, e chi ha avuto modo di testare Luna ha parlato di un prodotto con un potenziale davvero molto interessante… Ma basterà?

Al momento è possibile abbonarsi soltanto in alcune zone del mondo che, numeri alla mano, possono contare su connessioni internet ad alto livello: cosa succederà quando, finalmente, Amazon Luna sarà reso disponibile in tutto il mondo? Il rischio è di trovarsi di fronte a uno scenario analogo a quello di Stadia dove, nonostante le mille risorse a disposizione, una grossa azienda non riesce a prendere posizione in un settore che ancora non le appartiene. Al momento però si tratta solo di supposizioni, e tra qualche anno sapremo sicuramente osservare con sguardo più attento quella che sarà stata una grande innovazione o un grande buco nell’acqua.

Abbiamo visto insieme alcune di quelle tecnologie che, nonostante le buone premesse, non sono riuscite a lasciare il segno che forse meritavano nella storia dei videogiochi. Spesso si è trattato di mancanza di competenze a vari livelli, talvolta di sfortuna e in altre occasioni di carenze in termini di risorse. Il risultato finale è stato sempre e comunque lo stesso: un prodotto che non è stato in grado di fare breccia, e che è finito o è destinato a finire nel dimenticatoio.

Da storie come queste è però possibile imparare qualcosa, e alcuni degli esempi riportati ci parlano proprio di questo: da una caduta ci si può rialzare, evitando di commettere nuovamente quegli errori che si potevano rivelare fatali. Quello che vi invitiamo a fare è, come sempre, dirci la vostra: raccontate nei commenti quelle che sono per voi le grandi idee mancate nell’industria del gaming, anche al netto delle vostre personalissime esperienze. La storia dei videogiochi, del resto, è bella proprio perché varia.