Videogiochi violenti e antieroi, perché ci piacciono così tanto?

Videogiochi violenti e antieroi, perché ci piacciono così tanto? Ce lo siamo chiesti in questo articolo piuttosto personale.

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a cura di Antonio Rodo

Da che ho memoria, ho sempre apprezzato i videogiochi violenti (quelli che inglobano al loro interno una componente action, soprattutto shooter) e l’idea di impersonare un antieroe, un personaggio dalla dubbia moralità, chiaramente negativo ma capace anche di amare e farsi amare. Eppure, ve lo giuro, nella vita reale sono una brava persona: non faccio male a nessuno, mi faccio gli affari miei e nel weekend mi concedo qualche uscita. Oppure, nel “peggiore” dei casi, mi dedico ai videogiochi, alla visione di film o serie televisive (resti fra noi: spesso è la mia serata ideale). Ma allora perché sono così attratto dal male? Perché, nonostante io sia una persona pacifica, sono così affascinato dalla violenza digitale e da personaggi moralmente complessi? Non credo di avere una risposta specifica, cercherò infatti di trovarla insieme a voi durante la stesura di questo articolo, che sarà, come intuibile da questa introduzione, molto personale.

La violenza: da GTA III a Red Dead Redemption II

Avete presente quando, persi completamente tra i vostri pensieri, formulate un discorso complessissimo e ne andate fieri, al punto che non vedete l’ora di raccontare tutto a qualcuno? Personalmente, mi succede tante volte, e sfogo il tutto con alcuni amici o con mia sorella. 

In questi giorni, per l'appunto, ho riflettuto molto sulla violenza applicata al mondo dei videogiochi e su come quest’ultimo, il videogioco, probabilmente a causa del fatto che le case produttrici siano ben consce dei gusti e delle preferenze dei giocatori, ne faccia un uso abbondante, quasi eccessivo. Ovviamente, con questo non voglio affermare che, esperienze meno inclini alla violenza abbiano zero appeal sui videogiocatori; sicuramente meno, ma è una grossa fetta di pubblico da non sottovalutare. Nel calderone, infatti, ci sono titoli come FIFA o Gran Turismo, o tutti i vari simulatori rilasciati in questi anni. Io stesso, ad esempio, pur non capendone moltissimo, mi diverto con i titoli racing e mi appaga l’idea di continuare a fare consegne in Death Stranding, un videogioco completamente votato alla non violenza. Eppure, anche chi rimane nel mezzo come me, apprezzando un po’ tutte le esperienze, dal male è comunque attratto.

Mentre formulavo un pensiero a riguardo e riflettevo sulla realizzazione di questo articolo, ho individuato quello che per me è un percorso fondamentale per farvi comprendere bene il mio punto di vista. Come recita il titolo di questo paragrafo, l’idea è quella di prendere in esame alcuni tra i migliori videogiochi di sempre, sviluppati da una Rockstar Games che è sempre stata al centro di numerose critiche e dibattiti proprio in merito alla violenza, un po’ come è sempre successo al geniale Quentin Tarantino nel mondo del cinema. 

In GTA III si vestono i panni di un criminale, Cloud, che nel mezzo di una rapina a mano armata viene gravemente colpito e perde la voce. Superata questa riuscita e movimentata sequenza d’intermezzo, che non manca di citare i primi due GTA, con la telecamera che parte dall’alto, a volo d’uccello, e finisce per posizionarsi ai piedi del nostro protagonista, si sblocca l’open world. A partire da questo momento, il giocatore ha a disposizione un’intera città in cui poter gironzolare liberamente, rubare delle auto, commettere crimini di vario genere e completare alcune missioni principali e secondarie. Vuoi per una narrazione che tutto sommato è invecchiata abbastanza male, vuoi per un protagonista che è muto e non è nemmeno aiutato dalle espressioni facciali (considerando anche il periodo d’uscita), ciò che ai giocatori impressionò tanto furono proprio le azioni da compiere nel mondo di gioco. Non a caso, ricordo che passavo svariate ore del pomeriggio a rubare delle auto, combattere contro le forze dell’ordine e investire numerosi pedoni con il veicolo. È divertente, dicevo, e lo penso tutt'ora; non mi sono mai posto il problema o chiesto “perché mi diverte farlo?”  

Ad inizio articolo ho detto di non avere una risposta specifica, tuttavia credo che la realtà dei fatti sia molto semplice e scontata: è pur sempre finzione, fantasia. Questa è la mia risposta. Quello che faccio all’interno del videogioco non ha alcun impatto sulla mia persona, mi diverte e basta. Tra l’altro, credo che la violenza, seppur alle volte in modo implicito, Rockstar Games l’abbia sempre raccontata, anche criticata. Sempre nello stesso GTA III, ci sono delle missioni denominate proprio “violenze”, momenti in cui il giocatore è chiamato a fare una carneficina di gang da strada e civili in modo abbastanza gratuito. Sé, infatti, nel corso delle missioni principali vi è una logica dietro e una narrazione a supporto, e durante le sezioni free roaming è tutto nelle mani del giocatore, in queste attività si viene obbligati a consumare una violenza in un modo, lo ripetiamo, abbastanza gratuito. Ci avete mai riflettuto? Magari è una critica posta in modo velato. Non lo sapremo mai, sta di fatto che durante quei momenti ci siamo sentiamo un po’ come Al Pacino nella sequenza introduttiva di C’era una volta a Hollywood. 

Shwarz: ieri sera ci siamo visti due film con Rick Dalton. Sparatorie! Quanto mi piace, tutti quei morti!

Rick Dalton: Sì, un sacco di morti.

In questo paragrafo sono presenti spoiler riguardanti The Last of Us Parte 2 e Red Dead Redemption 2.

Da quel giorno, dall’uscita di GTA III, sono cambiato io, sono cambiati i videogiochi ed è cambiata anche Rockstar Games. Quel che è successo, in sostanza, è che sono usciti dei giochi che mi hanno fatto rivalutare completamente la violenza digitale. Mi sto riferendo a The Last of Us Parte 2 e Red Dead Redemption 2. Questi due videogiochi, sebbene molto differenti tra loro, hanno in comune l’incredibile messinscena e potenza del racconto, elementi sufficienti a far rivalutare tanti concetti che credevamo funzionassero in un determinato modo, l’unico possibile fino a quel momento. Proprio nel caso di Rockstar Games, poi, specie se consideriamo GTA III (o i primi due) come un punto di partenza, stupisce ancora di più il lavoro compiuto. Giocando l’ultima avventura Western made in Rockstar è successo che, di colpo, alcune delle azioni compiute avessero un peso enorme sul protagonista e su di noi giocatori. In particolare, mi riferisco alla missione in cui siamo costretti, nei panni di Arthur, a pestare un povero padre di famiglia al fine di ottenere dei soldi. Uno, due, tre pugni in faccia, tutti partiti da un nostro gesto, delle maledettissime pressioni sul tasto cerchio o B. Un’azione violentissima, capace di intenerire anche il più gelido tra gli esseri umani. Non a caso, e lo sanno bene gli appassionati, quando si viene a conoscenza delle conseguenze di quel momento, qualcosa cambia drasticamente, prima in Arthur e poi in noi: il nostro protagonista si becca la tubercolosi e ha i giorni contati, e il giocatore ha modo di riflettere sul reale impatto che hanno alcune azioni, tra l’altro obbligate, compiute attraverso l’utilizzo del controller. Ed è proprio in quel momento, una volta usciti dallo studio del dottore di Saint Denis, che il mondo di Arthur crolla, lasciando il posto a pensieri negativi. Anche il giocatore ne viene sommerso, complice l’eccezionale scelta di Rockstar Games di eliminare qualunque icona e obiettivo dallo schermo, facendoci vagare nel nulla, facendoci riflettere. Comincia così la redenzione, nostra e di Arthur. 

Non lo nascondo, in questo momento, mentre scrivo, ho la pelle d’oca, perché credo che quello appena raccontato sia un momento potentissimo, che eleva il videogioco. Ho motivo di pensare che una scena del genere non la rivedremo tanto facilmente.

E poi c’è The Last of us Parte 2, che in modo abbastanza analogo prova a fare la stessa cosa e ci riesce, per nostra fortuna o sfortuna. Già, già, perché anche nel cupo e doloroso viaggio di Ellie ed Abby i tasti del controller diventano macigni e le azioni enormi spunti di riflessione sulla vendetta e la violenza. Vi sto parlando di un videogioco distruttivo, devastante, a tratti per nulla divertente, che potrebbe persino spingere molti giocatori a prendersi una pausa anche solo per tirare un sospiro di sollievo e ricordare che le vicende appena vissute fanno parte di un mondo virtuale e non reale.

Con ciò, non faccio altro che sottolineare che da titoli come i primi GTA, passando per Hotline Miami a giochi che sono addirittura stati rimossi da Steam, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, e sebbene in alcuni contesti la violenza continui ad essere piacevole, divertente e intrattenente, da considerare è il fatto che le cose, almeno in alcune specifiche esperienze, stanno cambiando drasticamente, ed uccidere, seppur in un ambiente totalmente virtuale, potrebbe diventare sempre più pesante e meno piacevole. 

Con questo non sto assolutamente tradendo il titolo dell’articolo: sparare e ammazzare è davvero divertente nei videogiochi, e il motivo, come detto precedentemente, è a mio avviso abbastanza semplice e scontato: non sentiamo il peso delle azioni e ci piace da matti l’idea di impersonare un personaggio che differisce moltissimo da noi. Io, ad esempio, quando possibile, scelgo addirittura un personaggio femminile. Tutto nella norma, quindi, non siamo psicopatici. Qualora le immagini a schermo dovessero spingere l’utente a commettere un reato nella vita reale, il problema non sarebbe di certo del videogioco, ma della mente del giocatore disposta ad abbracciare pensieri tanto negativi.

Gli eroi non esistono più, siamo tutti antieroi

Gli eroi e le eroine sono sempre meno presenti nel mondo dei videogiochi, ci avete fatto caso? È un trend che negli anni ha perso notorietà, lasciando spazio a personaggi più complessi, sfaccettati e caratterizzati da una dubbia morale, lontana dal classico bianco e nero. Nemmeno Lara Croft, l’eroina per eccellenza, è da considerarsi tale. È un personaggio dalle mille fragilità, che ossessionata dal mito e dalle incomplete ricerche del padre, mette spesso da parte la salute del prossimo e non si rende conto di esporre gli amici più cari a pericoli di grande entità. Tutt'altro che un’eroina. 

All’infinito, potrei anche citarvi tantissimi giochi in cui siamo chiamati ad impersonare un cattivo o in cui è proprio quest’ultimo ad emerge prepotentemente nonostante la presenza di un protagonista definibile eroe. Forse ci hanno stancato, semplicemente. Oggi non ci accontentiamo più di personaggi che sono perfetti e vogliono salvare il mondo; no, vogliamo porci tante domande, riflettere sulle loro/nostre azioni ed infine trarre delle conclusioni. 

Succede da tantissimo tempo nelle serie televisive, basti pensare a prodotti come Hannibal (ho tifato per un cannibale, sì) o Peaky Blinders, e sempre più spesso nei videogiochi, nonostante qualche eroina qua e là di tanto in tanto salti ancora fuori. Aloy, infatti, è una mosca bianca in un panorama fatto di personaggi che superano spesso e volentieri il confine tra bene e male. E con questo non la voglio sminuire, anzi. È tutt'altro che un personaggio banale, nonostante voglia rappresentare, per intenzione degli sceneggiatori, una figura positiva in cui è facile rispecchiarsi. L’importante, quindi, ancora prima di stabilire se si tratti o meno di personaggi positivi, è costruirli bene, scriverli in modo che il giocatore possa interpretarne il carattere. 

Insomma, mica è colpa nostra se questi cattivi sono sempre più belli ed intelligenti. Io li apprezzo e sono certo lo fate anche voi, esattamente come sono certo apprezziate esperienze altamente violente, nonostante nella vita di tutti i giorni siate degli angioletti.