The Last of Us Parte 2 è ancora l'esperienza più intensa che abbia mai vissuto

The Last of Us Parte 2, nonostante sia passato un anno dal rilascio ufficiale, è ancora dentro di me.

Avatar di Antonio Rodo

a cura di Antonio Rodo

Raccontare The Last of Us Parte 2 è un’impresa titanica. Ciò che segue, chiaramente, non è una recensione del gioco, quella la trovate già sul nostro sito, solo il racconto di un appassionato che è rimasto incredibilmente addolorato dall’esperienza affrontata lo scorso anno. Perché sì, The Last of Us Parte 2 lo attendevo molto, ma viverlo dall’inizio alla fine, peraltro con la foga di conoscerne ogni dettaglio, mi ha ferito profondamente, e quella stessa ferita, ancora oggi, non accenna a ricucirsi. Fa strano, lo so: un videogioco, un prodotto nato soprattutto per intrattenere e divertire, che ottiene un effetto quasi contrario sul pubblico, in questo caso su di me. E questo punto in particolare credo sia incredibilmente importante da affrontare, perché The Last of Us Parte 2 è sì un videogioco, ma sembra fare di tutto per scrollarsi di dosso la definizione; è più esperienza, un racconto che ti lacera dall’interno, non un gioco inteso come tutti noi conosciamo.
 

Credetemi: durante la stesura di questo pezzo mi sento confuso. Non so da dove iniziare e dove andare a parare. Ho tanto da dire ma non riesco a trovare il modo migliore per farlo. In ogni caso vi avviso, probabilmente ci saranno enormi spoiler nel corso dell’articolo, quindi evitate di andare oltre se non avete ancora avuto modo di affrontare il viaggio di Ellie, sempre se l’intenzione è di cominciarlo, magari proprio su PlayStation 5, vista la recente patch rilasciata. 

Proviamoci! A distanza di un anno dalla release di The Last of Us Parte 2, parliamone.

La paura di perdere un personaggio

La vita, lo sappiamo, ogni tanto ci gioca brutti scherzi e ci sbatte in faccia coincidenze molto bizzarre. Avevo 14 anni quando cominciai la mia avventura con il primo The Last of Us, e indovinate un po’? Esatto, la stessa età di Ellie. Immaginate la mia reazione quando, finalmente pad alla mano, ho potuto muovere i primi passi all’interno di Parte 2 utilizzando una Ellie cresciuta quasi quanto me. Entrambi siamo cresciuti troppo in fretta e abbiamo assistito troppo presto “alle cose dei grandi”. Pure troppe. Ed entrambi eravamo sin troppo svegli, considerata la nostra giovane età: per Ellie era decisamente troppo presto per uccidere e rischiare la pelle ogni giorno, per non sapere se ci sarà un domani; per me, invece, troppo presto per giocare un videogioco come The Last of Us.  

Coincidenze a parte, ci siamo conosciuti e siamo cresciuti insieme. 

Perché ci stai raccontando tutto questo? Lo starete sicuramente pensando in questo momento. Semplice, per facilitare la comprensione, perlomeno emotiva, di ciò che sto per raccontarvi. Ve lo dico: per tutta la durata di The Last of Us Parte 2, e perdonatemi il francesismo, ho avuto una paura fottuta di perdere personaggi a cui sono tanto affezionato da anni. Se ci avete giocato, già lo sapete: alcuni li ho persi per sempre, e probabilmente nel modo peggiore; altri ce l’hanno fatta. Ma non entriamo troppo nei dettagli, o meglio, se capiterà di doverlo fare va bene, ma cerchiamo di evitare (fa ancora troppo male, sì).

Sapete cosa: tutto questo mio racconto fa riflettere su quanto possa variare ed essere differente la percezione di un prodotto e l’impatto che ha su ognuno di noi. Nel mio caso, considerato lo tsunami emotivo e il bagno di sangue e dolore, non c'era veramente spazio per polemizzare sulle tematiche affrontate dal racconto, sull’etnia di un personaggio o sulle preferenze sessuali di una ragazza. Dico sul serio! Non riesco proprio a capacitarmene. Dove lo trovate il tempo per riflettere su queste cavolate? Nel frattempo, io me la stavo facendo addosso e cercavo di controllare un personaggio praticamente impossibile da assecondare, una ragazza completamente accecata dalla violenza al punto da incastrarsi in un vero e proprio ciclo violento, il quale, in modo inarrestabile, genera costantemente dolore. E insieme, nel corso del viaggio, abbiamo preso parte a situazioni completamente fuori controllo, cose di cui non andar fieri. Il tutto perché, trattandosi di un videogioco, siamo gioco-forza costretti a premere i tasti: ricordo ancora la stramaledetta pressione sul tasto quadrato in Snake Eater, ad esempio, così come ricordo quella dolorante alternanza di pressioni sul quadrato e sul tasto L1 a cui siamo stati sottoposti durante lo scontro finale con Abby, per vendicare una persona che abbiamo allontanato e non fatto in tempo a perdonare.  

Se c’è una cosa su cui il racconto di Neil Druckmann fa tanto affidamento, quella cosa è proprio l’affetto per i propri cari e le persone a cui siamo molto legati. Una riflessione sincera, genuina e forse anche un po’ banalotta, eppure estremamente efficace, proprio come le battute finali del gioco. “Se il signore mi concedesse la possibilità di rivivere quel giorno, lo rifarei, rifarei lo stesso". Vale a dire: manderei a quel paese il mondo e sceglierei te. Un dialogo semplice, che non ha nessuna pretesa e non ricerca nessuna complessità, ma che ha avuto un impatto devastante su di me. Quando durante i titoli di coda sono stato travolto da una sincera commozione, ho realizzato realmente i motivi del lungo viaggio affrontato. Lei, Ellie, e in verità anch’io, non voleva vendicare Joel; era solamente la rabbia a parlare e a spingerla a fare cose di cui è facile pentirsi. In verità, entrambi volevamo semplicemente aver avuto la possibilità di scusarci con Joel, di dirgli che siamo stati troppo duri con lui, che in fondo, per quanto difficile, quel che ha fatto l’ha fatto per salvarci. Ma non si può, non è possibile: Joel è morto e l’ultimo ricordo che abbiamo di lui è un litigio, finito con la speranza di poterlo perdonare, un giorno. Speranza svanita nel nulla. Ecco da dove nasce la rabbia che ci porta a Seattle e ci trasforma in demoni, che ci fa venire il tremolio alla mano dopo l’ennesima uccisione. Succede tutto per un confronto amichevole mancato.

Io vi capisco, dico sul serio. Lo capisco se non avete apprezzato The Last of Us Parte 2. Del resto non è mica facile apprezzare un gioco che non diverte e ti distrugge; un'esperienza che non ti fa andare d’accordo nemmeno con la protagonista e che non ti regala un lieto fine, non nel modo più classico. Vi capisco davvero, perché sopportare tutto questo non è facile, ancor di più riviverlo. Per questo, come da titolo, credo che si tratti in assoluto dell'esperienza più intensa che abbia mai vissuto, perché ho provato sensazioni inedite, quasi troppo spinte per un prodotto d'intrattenimento.

Inoltre, e qui chiudiamo il paragrafo più personale dell’articolo, ad un certo punto The Last of Us Parte 2 non sembra nemmeno avere uno scopo. In moltissime produzioni l’obiettivo è chiaro sin dall'inizio: salvare la galassia, uccidere un bersaglio, salvare la principessa, consegnare una ragazza alle Luci. Nel caso di The Last of Us Parte 2 no, vai avanti per i motivi sbagliati, non ti ritrovi mai nel giusto e finita l’avventura non ti rimane nulla: i tuoi amici, la musica, nemmeno tutte le dita...

È difficile da sopportare.

Un gameplay teso e brutale almeno quanto la narrazione

Anche durante le fasi di gameplay tanto criticate da alcuni, la produzione di Naughty Dog riesce a disturbare almeno quanto la sua narrazione. Ogni sequenza di gioco è tesa e il nemico non è mai un birillo, bensì un uomo da ammazzare per andare avanti, che ti sta cercando, che ha la guardia alta e che non ci penserebbe nemmeno mezza volta a farti la pelle. È in questo contesto e con una tensione così alta che siamo chiamati a muoverci. The Last of Us, magari non avrà lo shooting di Gears o delle coperture responsive a là Uncharted, ma bisognerebbe anche sforzarsi un attimo per capire gli obiettivi e le intenzioni di un videogioco. Avrebbe avuto senso sparare come in Gears? No, stesso dicasi per il resto. L’avanzamento deve risultare sempre teso e il giocatore non deve mai sentirsi troppo confidente con l’ambiente e i nemici. Il rinnovato level design aiuta moltissimo da questo punto di vista, restituendo un senso di smarrimento costante. Le mappe, infatti, sono molto grandi e ad ogni scontro saltano fuori possibilità diverse, approcci diversi; un The Phantom Pain in miniatura, per capirci, non un gioco estremamente limitato, scriptato e in cui non fai altro che accendere generatori, mannaggia a voi e alle vostre sparate. Vogliamo ficcarci in mezzo anche l’elevata quantità di situazioni inserite nel gioco, le quali arrivano persino a toccare generi lontanissimi da quello che ci si potrebbe aspettare da un The Last of Us? Durante il viaggio ci sono momenti horror, western, dei contesti bellici. Di tutto e di più, senza mai perder colpo e con una qualità sempre percepibile. E giuro di aver raccontato poco.

Troppo bello da vedere ancora oggi

Per concludere, avviandoci in quella che sarà la conclusione di questo articolo, non posso esimermi dal ricordarvi quanto impattanti siano state le conquiste tecnologiche di questo videogioco. Fortunatamente, di comparti tecnici sbalorditivi ne stiamo veramente vedendo tanti, e anche andando un pochino indietro nel tempo potrei citarvi Hellblade, Red Dead Redemption 2 o Death Stranding. Eppure, in The Last of Us Parte 2 c’è il passettino in più, l’ossessione per la cura e i dettagli, quella capacità di lasciarti meravigliato ad ogni avvio. Sarà per l’uso del motion matching, per delle prove attoriali impressionanti, per degli ambienti praticamente reali, o magari per l'insieme, fatto sta che colpisce come nessun'altra cosa, e giuro di star ancora aspettando un titolo che prenda tutte queste conquiste, le faccia sue e le porti avanti.

Siamo arrivati alla fine, al momento in cui chiedersi cosa ci è rimasto addosso di questa esperienza, un anno dopo. La verità? Tutto.

Se non avete ancora giocato The Last of Us Parte 2, vi suggeriamo di prenderlo a prezzo scontato, soprattutto considerando l'aggiornamento PlayStation 5 che porta l'avventura di Ellie a 60FPS.