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Yomawari: Lost in the Dark, quando l'incubo è dentro di noi | Recensione

Ecco la nostra recensione di Yomawari: Lost in the Dark, il nuovo videogioco sviluppato da Nippon Ichi Software e pubblicato da NIS America.

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a cura di Nicholas Mercurio

Yomawari, in giapponese, significa “Guardia notturna” e, secondo il dizionario di lingua italiana, vuol dire qualcuno che vigila, protegge e assicura l’incolumità di una persona da ogni genere di pericolo, interno ed esterno, imprevedibile o atteso. Ma tralasciando i significati linguistici ed etimologici delle parole, Yomawari: Lost in the Dark è il terzo capitolo della seria Yomawari, che si concentra dal 2016 sulle scomode favole dell’incubo provenienti dal Sol Levante. Brutali, mai scontate e ricolme di storie angoscianti, rappresentano per molti giocatori delle sfide interessanti da vivere calandosi nei panni di un bambino alla mercé dell’oscurità, di creature provenienti dai luoghi dell’inconscio e da altre bestialità che da grandi sembrano storielle.

O forse no, perché là fuori c’è sempre bisogno di qualcosa che faccia paura in modo spontaneo, oltre alle tante storie con il classico lieto fine cui non si può fare a meno, e che fanno sempre bene, specie se infiorettate a dovere. Se in Occidente c’è chi si è spaventato con la strega dei poveri Hansel e Gretel finiti casualmente nella casetta di Marzapane, in Giappone si raccontano direttamente storie di spiriti del passato, molto spesso persino di vecchi antenati, e alle volte di demoni shintoisti che ritornano per minacciare chi non ha fatto il bravo. E altro che uomo nero sotto al letto, altro che mostro dell’armadio e tante altre amenità del genere. Il terrore è da sempre il motore che alimenta l’anima stessa dell’uomo, non snaturandolo e neppure sminuendolo, ma considerandolo uno come tanti che si trova nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Yomawari: Lost in the Dark non è un Venerdì 13 e non è un classico horror che intende spaventare, bensì è un videogioco intimista che trasmette ansia e angoscia.

Come accennavo prima, la serie Yomawari è considerata speciale da una larghissima fetta di utenza. I suoi primi due videogiochi, giunti a distanza di pochi anni l’uno dall’altra, vengono ricordati specialmente per i contesti, la densità del racconto e l’efficacia del gameplay. Yomawari: Lost in the Dark, però, rappresenta un concreto passo avanti per Yu Mizokami e Nippon Ichi Software, che lavorano ormai insieme da anni, confezionando piccoli successi e tante grandi soddisfazioni. La paura è un sentimento primordiale come lo sono l’odio, l’amore, la tristezza e la rabbia, e ognuno di essi dimostra di essere unico a modo suo. Quanto è importante, per l’appunto, voler essere diversi? È la stessa domanda che si è posto Kira – nome che ho scelto durante la creazione del personaggio –, il protagonista di questo survival horror in uscita il prossimo 25 ottobre.

La serie, che è celebre a chiunque adori le produzioni che arrivano dal Paese del Sol Levante, in questi ultimi anni ha vantato di un numero invidiabile di giocatori. Se devo fare un paragone con un videogioco pubblicato recentemente, Yomawari: Lost in the Dark ricorda Omori per cosa intende trasmettere. Quest'ultimo, un altro titolo giapponese che parla però in un altro modo dell’orrore, scava all’interno della personalità del protagonista per scoprire i suoi segreti. Se Omori tratta della paura come inevitabile, Yomawari: Lost in the Dark segue un altro tipo di approccio. Ma meglio procedere con ordine.

La storia di Yomawari inizia dai banchi di scuola

Kira, come tanti altri bambini della sua età, frequenta le medie. Vive alla giornata, studia e si diverte con gli amichetti, esce e nasconde le sue cotte, dedicandosi allo studio per soddisfare le aspettative dei suoi genitori, che pretendono il massimo da lui. Un giorno come un altro, però, Kira viene infastidito con lanci di cartacce, cibo e gavettoni: è una silenziosa vittima dei bulli. Evita di denunciarli, cerca di non considerarli e di seguire soltanto le lezioni, perché è convinto che smetteranno, prima o poi.

Sul suo banco sono scritte parole brutali, come incitazioni al suicidio e insulti di varia natura. Kira n'è abituato. Cambia inaspettatamente, da un momento all'altro: diventa insicuro, poco incline al dialogo, sempre sui libri e non parla più ai suoi genitori. Quei gesti minacciosi, sempre più insistenti e pericolosi, portano il piccolo a raggiungere la balconata più alta della scuola, perché pensa di farla finita. Il prologo, che dura qualche manciata di minuti, introduce al mondo di gioco e il contesto. All'improvviso, lo schermo diventa nero e il ragazzino, aprendo gli occhi, si ritrova nel bel mezzo di una radura. Stropiccia gli occhi, inconsapevole di cosa stia accadendo e perché, ma è sicuro che ormai è tutto perduto.

Qui incontra una ragazza, che gli dà il benvenuto in un mondo irriconoscibile, abitato da creature dell’incubo di ogni sorta. Parlandoci, Kira scopre di essere nel bel mezzo di un brutto sogno, e che l’unico modo che ha per spezzare la maledizione è ricomporre i filamenti della sua mente. Una missione che, per quanto classica, è tuttavia fondamentale. L’unico modo per abbandonare quel luogo nefasto, infatti, è ricollegarsi ai suoi ricordi. Eppure, il piccolo si è dimenticato tutto, come se le cose belle che ha vissuto non esistessero più, come se l’unica soluzione alla fine fosse la sua morte.

La narrazione, che si concentra letteralmente sulle vicende del piccolo, è ben amalgamata e rappresentata nel contesto. Mentre impersonavo Kira, capivo cosa provasse e perché avesse deciso di farla finita. La sua missione, che è di vitale importanza per lui, è l’unico modo che ha a disposizione per ritornare nel mondo dei vivi. Non facendo spoiler che potrebbero rovinarvi l’esperienza, sappiate soltanto che il mondo di gioco, al contrario delle altre produzioni dedicate alla serie, è incentrato su una cittadina giapponese con i suoi quartieri, i suoi negozi, i suoi parchi e una modesta scuola che istruisce bambini provenienti da qualunque rango essi appartengano.

A riguardo, ad avermi colpito è proprio la scrittura del protagonista e le sue sfumature: anche se non proferisce parola, si avvertono i suoi sentimenti e le sue ansie. Detta così sembra uno scherzo ma non lo è per niente, perché Kira è un personaggio tormentato dal passato e dai bulli. Come accennavo prima, in Yomawari: Lost in the Dark niente è come sembra. Se in passato le ambientazioni sembravano spoglie e di poca inventiva, in questo terzo episodio tutto ha una logica, perché ogni elemento è stato costruito in maniera tale che il giocatore trovi famigliare qualunque area di gioco, persino quelle in cui non è mai stato. Non mancano neppure i classici protagonisti dell’esperienza, come una ragazza misteriosa che è accorsa in mio aiuto o il dolce gatto Muji, che rappresenta una salvezza nei momenti complessi.

Il racconto di Yomowari: Lost in Dark è oscuro e sinistro, e parla di una vittima con un passato orribile e straziante, il quale mi ha trasmesso una tristezza sconfinata. E durante la sua scoperta, mentre avanzavo nell’oscurità, mi accorgevo che, effettivamente, il mondo reale e quello fittizio in cui sono capitato sono uguali, ma almeno uno dei due è finto. Oltre a queste presenze oscure, non mancano neppure mostri e creature della cultura giapponese, che ritornano in questo terzo capitolo come avevano fatto con le produzioni antecedenti della serie. Ci sono volti che compaiono all’improvviso da un vicolo, ci sono creature armate di nodachi volteggianti e non mancano neppure bestie enormi che ricordano gli Yokai di NioH 2. Se l’inferno è senza fiamme come quello di Scorn, in Yomawari è oscuro e pieno di terrori.

Un gameplay efficace e divertente

La visuale di gioco, come sempre dall’alto verso il basso, consente al giocatore di muovere il proprio personaggio nel level design del gioco. Pur non essendo così intricato e in effetti estremamente guidato, risulta in ogni caso ben implementato e divertente. Mi sono spesso perso nei vicoli per raccogliere una moneta, utile per salvare alle statue di Jizo. Il videogioco, in tal senso, posiziona i suoi punti di salvataggio in zone limitrofe ai luoghi che è necessario esplorare durante l’esperienza. Una novità è il taccuino di Kira, che può leggere per capire dove andare in base agli indizi raccolti, come nella scuola e nel parco. La sua memoria, sferzata dal passato, è nebulosa e da riparare. Munito di una torcia, la sua unica ancora di salvezza, può illuminare cosa è celato nell’oscurità, proseguendo all'interno del racconto.

Gli unici oggetti a consentirlo, per l’appunto, sono i ricordi, da affrontare direttamente nel corso dell’esperienza. In totale ce ne sono dieci nelle due pagine del taccuino, e l’obiettivo del gioco è dunque arrivare a possederli tutti per avanzare nell’esperienza. Niente di così complicato, certo, ma un tratto caratteristico della serie Yomawari era il suo livello di difficoltà. Se durante il tutorial ho trovato delle difficoltà, nel corso del gioco mi sono spesso imbattuto in situazioni ancora più complesse. Per affrontarle avevo tre possibilità: impedire ai miei occhi di vedere, lanciare un sasso raccolto precedentemente dal suolo per attirare le creature altrove, oppure darmela gambe levate. Per quanto l’ultima opzione fosse una delle più allettanti, ho lanciato spesso il sassolino in modo tale da catturare l’attenzione delle fiere dell’incubo, e spesso è andata bene.

Però il buio e ciò che proveniva da esso mi inquietava e disturbava a tal punto da essere fastidioso. E allora cosa ho fatto? Ho messo le mani sugli occhi e camminato, non fermandomi mai e, soprattutto, non tornando indietro. È un sistema di gioco che, rispetto al passato, funziona in maniera fluida e diverte perché offre diversi modi per interfacciarsi con le situazioni. Camminavo, non mi fermavo: anche se c’era un nemico a poca distanza da me, non gli davo importanza. Il mio cuore batteva senza freni, come se stessi correndo, ma invece compivo lentamente un passo dopo l’altro. Il terrore era ovunque, il panico poteva uccidermi e il silenzio era ben più assordante di qualunque altra cosa avessi attorno. Anche più dei nemici.

Al netto di questo, Yomawari: Lost in the Dark prende forse troppo dai videogiochi precedenti e non osa abbastanza sotto il profilo del gameplay, pur proponendone uno ben implementato. Gli enigmi ambientali non sono complessi e, soprattutto, l’interazione è quasi sempre chiara sin dall’inizio, ogni volta che si entra all’interno di un’area da esplorare per raccogliere i ricordi e gli oggetti necessari all’avanzamento dell’avventura. Niente che, però, non sia assolutamente calcolato: sebbene imperfetta, è un’opera di cuore, con un’anima ben definita e una struttura di gioco che convince, nonostante non sorprenda. Poteva, insomma, dare molto di più e sfruttare pienamente le sue ottime trovate.

Una direzione artistica d’autore

Mentre avanzavo nell’esperienza, attorno a me c’erano sempre luoghi delineati in modo tale da essere un tempo vissuti e stravolti dal corso degli eventi. Le strade, una volta pullulanti di vita, ora non sono nient’altro che l’immagine sfuggente di un tempo passato ormai smarrito. Mentre avanzavo, entrando all’interno della scuola o seguendo le intricate vie cittadine, avevo sempre l’impressione che ogni luogo avesse una storia da raccontare.

In tal senso, l’opera è disegnata completamente a mano, offrendo di conseguenza una gradevole art direction del mondo che si esplora, riempito per l’occasione da quartieri, parchi da gioco e tante altre aggiunte piacevoli, che espandono di conseguenza il mondo di Yomawari: Lost in the Dark e dell’intera serie. Ogni elemento è stato inserito con attenzione, in maniera tale che fosse di facile approccio anche al meno avvezzo, dando al giocatore dei chiari punti di riferimento. Se in passato era complesso trovarne uno, adesso le mappe, disseminate per la cittadina, danno la possibilità di capire dove si sta andando.

E cosa dire del comparto audio, un altro punto a favore della produzione? I passi, amplificati dal terrore della notte, battevano sull’asfalto irregolare della strada o all’interno della pavimentazione perfetta della scuola, mai così realistici come in questa occasione. Le musiche, composte egregiamente, trasudano speranza e commozione, trasmettendo al giocatore sensazioni disarmanti, come se quelle note fossero l’unico appiglio per andare avanti. Yomawari: Lost in the Dark, insomma, è una produzione giapponese che arriva in Occidente non facendo sicuramente grande clamore. C’è il viaggio di un bambino, impersonato dal giocatore. C’è l’oscurità, che è da sconfiggere. E c’è la solitudine, che è ben peggiore dell’oscurità stessa.

Voto Recensione di Yomawari Lost in the Dark - PlayStation 4


8

Voto Finale

Il Verdetto di Tom's Hardware

Pro

  • Un gameplay efficace, ma...

  • Una storia intensa e toccante, che potrebbe piacere a chiunque

  • Atmosfere taglienti e penetranti, capaci di lasciare il giocatore alla mercé di sé stesso

  • Un semplice approccio survival, con poche interfacce da usare

  • La cittadina è affascinante da esplorare

Contro

  • ... troppo legato al passato, che forse necessitava di qualche aggiunta maggiore

  • Una difficoltà a tratti frustrante

Commento

Yomawari: Lost in the Dark, terzo capitolo del franchise di Yomawari, è un'opera intimista e dolce. Racconta le vicende di un ragazzino spaventato dal mondo che vuole farla finita una volta per tutte, perché non vede altra alternativa e non può fare nient'altro che lasciarsi andare. Forte di un gameplay efficace, certe aggiunte sono state piacevoli, anche se si poteva osare maggiormente.

Informazioni sul prodotto

Immagine di Yomawari Lost in the Dark - PlayStation 4

Yomawari Lost in the Dark - PlayStation 4