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TripAdvisor, arriva la prima condanna per false recensioni

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Avatar di Dott. Ercole Dalmanzio

a cura di Dott. Ercole Dalmanzio

Pubblicato il 14/09/2018 alle 19:19 - Aggiornato il 19/09/2018 alle 19:50
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L'annosa querelle legata alle false recensioni pubblicate su TripAdvisor si arricchisce di un altro interessante capitolo dopo che il Tribunale di Lecce ha condannato il rappresentante di una società, attorno alla quale si era sviluppato un vero e proprio business di recensioni false, a 9 mesi di reclusione e al pagamento di circa ottomila euro quale risarcimento dei danni cagionati all'azienda statunitense (pena successivamente sospesa).

Il noto portale di recensioni online è infatti diventato negli anni un vero e proprio punto di riferimento per migliaia di utenti che desiderino prenotare un hotel o semplicemente un tavolo al ristorante. Conseguentemente, diverse società hanno iniziato ad offrire a queste strutture pacchetti di recensioni false ad un prezzo variabile a seconda della quantità.

In questo modo si promette all'azienda di beneficiare di una maggiore visibilità, guadagnando così diverse posizioni nella classifica del gradimento degli utenti.

Le motivazioni poste a base della sentenza di condanna

Nonostante questo fenomeno sia di carattere internazionale (coinvolgendo piattaforme come YouTube, per la quale è possibile acquistare le visualizzazioni) è la prima volta che si assiste ad una condanna penale di una società che offre questo genere di servizi a pagamento.

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Photo credit - lucidwaters/Depositphotos.com

Ciò si è reso possibile grazie anche al lavoro capillare dei consulenti legali del portale, il quale costituendosi parte civile nel giudizio penale promosso nei confronti della società venditrice delle false recensioni, ha permesso di documentare dettagliatamente il sistema fraudolento ed arrivare così ad un pronunciamento che le associazioni di esercenti e consumatori non hanno tardato a definire "storico".

Il tutto origina infatti da una serie di indagini condotte dallo stesso team antifrodi di TripAdvisor nel 2015, sulla base delle segnalazioni ricevute dai proprietari di diverse strutture, i quali erano stati contattati da un'agenzia pugliese che pubblicizzava il proprio servizio di recensioni a pagamento.

Le indagini così svolte hanno infatti permesso di risalire al medesimo autore, ancorché in diversi casi risultasse palese che si trattasse di recensioni non veritiere: si è infatti notato che le recensioni il più delle volte si riferissero a presunte visite effettuate durante i turni di chiusura delle strutture o, nel caso dei ristoranti, a pietanze da tempo non più presenti all'interno dei menù.

In parecchi casi è stato sufficiente avvertire le strutture procedendo successivamente a declassarle nel posizionamento da queste raggiunto: tale policy applicata da TripAdvisor, implicando una conseguenza diretta sul cosiddetto "indice di popolarità", ha permesso di bloccare anzitempo diversi tentativi di frode.

Nei casi più gravi (qualora cioè il declassamento non si sia rivelato sufficiente) si è proceduto con la cosiddetta "marchiatura", applicando un bollino rosso sulla pagina della struttura che informa gli utenti della presenza di tentativi di manipolazione delle recensioni: nel caso in esame, la stessa TripAdvisor ha comunque ammesso che la maggior parte delle attività hanno prestato la propria collaborazione per porre fine all'attività illecita posta in essere dalla società pugliese.

A seguito della richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Lecce (che aveva aperto un fascicolo nei confronti del rappresentante legale dell'azienda per i reati di truffa e di sostituzione di persona), la vicenda è quindi approdata al Tribunale di Lecce che ha successivamente condannato l'imputato per entrambi i reati a lui ascritti.

I giudici salentini hanno quindi condannato la società aderendo all'orientamento espresso recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione con le sentenze n. 25774 del 2014 e 18826 del 2013 (la quale riprende i principi già espressi con la la sentenza n. 46674 del 2007), secondo cui la fattispecie prevista dall'articolo 494 del codice penale è perfettamente configurabile in caso di creazione di un profilo falso o riferito ad un altro soggetto all'interno di un social network, con l'intento di trarne un vantaggio indebito.

tripadvisor
Photo credit - teamtime/Depositphotos.com

I Supremi giudici partono infatti dall'assunto che la sostituzione di persona sul web debba necessariamente realizzare un vantaggio per colui che la mette in atto: nel caso di specie è stato infatti accertato che la creazione di false recensioni positive dietro corrispettivo consentisse alla struttura di posizionarsi nei primi risultati di ricerca, realizzando così un ritorno di immagine non indifferente in termini di pubblicità.

In questi casi è il bene giuridico tutelato della pubblica fede ad assumere particolare rilevanza nel ricondurre tali fattispecie a quella descritta dalla norma in esame: la condotta può infatti estrinsecarsi in un inganno che coinvolge alternativamente gli aspetti relativi alla vera essenza di una persona, alla sua identità o ai suoi attributi sociali. In altre parole, la lesione si realizza ogniqualvolta in cui l'attività sia idonea ad ingenerare nel pubblico un convincimento difforme dalla realtà fattuale e in grado di raggiungere un numero indeterminato di soggetti. Ciò generalmente si realizza attraverso un abuso della fiducia da quest'ultimi riposto in segni o attestazioni, ove tale affidamento sia potenzialmente idoneo a trarli in inganno.

L'intento del legislatore è stato quello di reprimere questo genere di condotte insidiose nei riguardi della fede pubblica, accordando quindi una tutela ulteriore rispetto a quella concessa nei confronti della fede del singolo e della tutela civilistica del diritto al nome. Il discrimine tra la fattispecie penale e quella di stampo civilistico risiede quindi nel concetto stesso di fede pubblica, quando gli effetti lesivi della condotta ingannatrice raggiungano un numero indeterminato di destinatari anziché rimanere confinati nella sfera del singolo individuo.

L'impegno profuso da TripAdvisor a seguito della condanna dell'Antitrust del 2015 (e poi annullata dal TAR)

L'impegno profuso da TripAdvisor nel porre rimedio al malcostume delle false recensioni pubblicate all'interno del proprio portale è stato al centro di una condanna dell'Antitrust nel 2014, tuttavia annullata l'anno successivo da una sentenza emessa dal TAR del Lazio.

In quella circostanza, L'Antitrust, su segnalazione dell'Unione nazionale consumatori e di Federalberghi aveva accertato, a partire da settembre 2011, la scorrettezza della pratica commerciale realizzata dal portale di recensioni e dalla sua divisione italiana, irrogando ad entrambe una sanzione amministrativa di 500mila euro.

A finire nel mirino dell'Antitrust fu infatti l'enfasi con cui TripAdvisor enfatizzava l'autenticità e la genuinità delle recensioni in quanto "espressione di reali esperienze turistiche". Un comportamento giudicato in palese violazione degli articoli 20, 21 e 22 del Codice del Consumo allorché questo fosse in grado di indurre in errore un numero considerevole di consumatori circa "la natura e le caratteristiche del prodotto, così da condizionarne il comportamento economico".

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Photo credit - sharafmaksumov/Depositphotos.com

Tuttavia, il TAR del Lazio annullava nel 2015 il provvedimento emanato dall'Antitrust, riconoscendo come per TripAdvisor fosse impossibile effettuare un controllo capillare delle recensioni né che questa ne avesse garantito l'autenticità e pertanto, era conseguentemente incomprensibile il nocumento per il consumatore asserito dall'Autorità a sostegno della sanzione così comminata.

Conclusioni

Non v'è dubbio che la sentenza pronunciata dal Tribunale di Lecce costituisca un punto di svolta nel fenomeno delle false recensioni online, mettendo fine a una pratica commerciale pregiudizievole per i diritti degli utenti e dei consumatori.

L'auspicio è che questa sentenza sia in grado di fare da necessario apripista anche nei confronti di altri colossi del web (YouTube in primis) e che questi adattino le misure necessarie a proteggere la buona fede dei consumatori.

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