Nel fine settimana, OpenAI ha superato una linea rossa implicita, generando una reazione immediata da parte della sua base di utenti più fedele. L'azienda ha silenziosamente introdotto i primi "suggerimenti di app" nelle conversazioni di ChatGPT, messaggi che, per natura, funzione e tempistica, somigliano in modo inquietante a messaggi pubblicitari. Potrebbe essere un test limitato, ma anche il primo passo di un nuovo corso.
Non si tratta del solito banner nell’app gratuita, cosa che sarebbe fastidiosa ma tutto sommato normale e accettabile. La vedono infatti anche gli abbonati Pro che spendono fino a 200 dollari al mese. Chi paga una fee così elevata per un servizio si aspetta che la piattaforma si attenga al principio fondamentale di un rapporto diretto, pulito e non mediato con l'AI.
Tra l’altro, nel caso specifico, è stata proposta l'app Peloton in una chat senza alcun riferimento al fitness. Quindi una pubblicità assolutamente fuori contesto, un'intrusione irrilevante che distrae e, soprattutto, svaluta il concetto di servizio premium.
Il fantasma dell’enshittification
L'erosione dell'esperienza d'uso solleva una preoccupazione che va oltre il singolo abbonamento: la possibilità che l'AI generativa stia entrando in quella che il giornalista e attivista tecnologico Cory Doctorow definisce la fase dell’enshittification. Una parola che l’anno scorso è entrata anche nei vocabolari italiani, e di cui su Tom’s Hardware abbiamo parlato la prima volta già nel 2023.
Doctorow ha coniato questo termine per descrivere il processo di degradazione delle piattaforme digitali. Secondo la sua analisi, una piattaforma segue un ciclo prevedibile: inizia offrendo un servizio eccellente agli utenti per attirarli, passa poi ad abusare degli utenti per favorire i clienti commerciali (gli inserzionisti) e, infine, abusa anche di questi ultimi per massimizzare il valore per sé stessa e i suoi azionisti.
Ora, che OpenAI stia entrando in questo ciclo è da dimostrare, ma sicuramente quello della pubblicità è un segnale in quella direzione, almeno apparentemente. Intanto, praticamente nelle stesse ore, il CEO Sam Altman ha messo l’azienda in allarme rosso: bisogna tornare a lavorare sulla qualità del prodotto, perché Gemini e Claude stanno migliorando troppo e troppo in fretta.
Se è vero che OpenAI ha bisogno di ammortizzare i costi operativi insostenibili dei suoi modelli, l'inserimento di pubblicità per gli utenti paganti suggerisce che il valore offerto al fruitore sta iniziando a diminuire in favore degli interessi commerciali di terzi. Questa dinamica non è ancora una dichiarazione di enshittification conclamata, ma ne è un campanello d'allarme, un segnale che il modello di business sta "ritoccando" l'allocazione del valore a discapito della qualità.
Per i professionisti e le aziende che investono in questi strumenti, l'introduzione della pubblicità compromette l'efficienza operativa e solleva seri interrogativi sulla stabilità del modello. Se l'AI, come altri giganti del web, non riesce a resistere alla tentazione di monetizzare ogni pixel del suo spazio, il suo futuro rischia di diventare la replica di un passato che credevamo di aver superato.
Prospettive per un'AI mercificata
La vera sfida per OpenAI e i suoi concorrenti, quindi, non è trovare nuove fonti di ricavo, bensì farlo senza sacrificare il bene primario che vendono: l'efficienza e l'assenza di frizioni. L'alternativa è la trasformazione dell'assistente AI in un ennesimo intermediario digitale che tiene in ostaggio la nostra attenzione.
E qui c’è l’enorme differenza che separa OpenAI da Google o Microsoft o, in parte, Anthropic (che è legata ad Amazon). Semplicemente, OpenAI è una società con un solo prodotto, un solo motore. O fanno soldi con ChatGPT oppure restano in bolletta, e oggi come oggi il chatbot non sta generando grandi profitti. Google, Microsoft e Amazon invece sono hyperscaler, e guadagnano così tanto dagli altri servizi che possono permettersi serenamente di avere un’AI che non produce profitto.
In altre parole, i colossi hi-tech potrebbero semplicemente soffocare finanziariamente OpenAI, offrendo un prodotto concorrente di buona qualità a prezzi più bassi. Per ora i prezzi sono allineati, ma Altman e soci sanno benissimo che quello può diventare un problema serissimo. Per non parlare poi delle opzioni open source, che costano meno o sono addirittura gratis (ma in genere lì ci sono altri problemi per gli utenti).
Quanto all’utente finale, naturalmente nessuno vuole pubblicità non richiesta. E se siamo (più o meno) disposti ad accettarla per un prodotto che non si paga in denaro, nel caso di un servizio premium diventa davvero difficile da digerire.
L’AI tuttavia non sta facendo abbastanza soldi, soprattutto quella stand-alone come ChatGPT. OpenAI non ha una piattaforma consolidata come Google, Microsoft, SAP o altri, dove poter mettere l’AI come servizio aggiuntivo - magari forzando l’aumento del canone. L’azienda di Altman può contare solo sugli abbonamenti di privati e aziende, e per ora non sta bastando.
L'AI riuscirà a trovare un modello sostenibile che non sia quello, fin troppo familiare, della mercificazione dell'utente e della enshittification? I segnali attuali, purtroppo, indicano che la strada scelta è quella della tradizione, non dell'innovazione etica.