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Editori pagati dalle AI? La strana idea di Perplexity potrebbe funzionare

L'ascesa dell'intelligenza artificiale minaccia il modello di business dell'editoria online. Una startup propone di pagare non il click, ma l'uso delle fonti.

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Avatar di Valerio Porcu

a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

Pubblicato il 27/08/2025 alle 09:30 - Aggiornato il 28/08/2025 alle 10:53

L'articolo in un minuto

  • Perplexity lancia Comet Plus, un nuovo modello che compensa gli editori non solo per i click, ma anche quando i loro contenuti vengono citati dall'IA nelle risposte agli utenti
  • L'editoria digitale è in crisi profonda: l'IA generativa e strumenti come Google AI Overview stanno cannibalizzando il traffico web, rendendo obsoleto il modello pubblicitario basato sui click
  • Il progetto affronta sfide economiche e di governance: resta incerto se i ricavi da abbonamenti possano sostenere compensi equi e se altri giganti tech adotteranno modelli simili, con il rischio di manipolazioni algoritmiche
Riassunto generato con l'IA. Potrebbe non essere accurato.

La società tecnologica Perplexity ha annunciato il lancio di Comet Plus, un nuovo modello di condivisione dei ricavi pensato per gli editori online. L'iniziativa mira a compensare i creatori di contenuti non solo per il traffico diretto generato da un click, ma anche quando le loro informazioni vengono utilizzate e citate dalla sua intelligenza artificiale per formulare le risposte agli utenti.

Una novità che si inserisce nella crisi che affligge l'editoria digitale; da molto tempo ormai che una “emorragia di utenti”, che preferiscono le piattaforme social, e ora trovano risposte direttamente dai chatbot e da novità come Google AI Overview. Il traffico verso i siti fonte sta crollando, distruggendo il modello pubblicitario su cui si reggeva l'informazione "gratuita". L'idea di remunerare la "citazione" anziché la "visita" rappresenta quindi un tentativo di ridefinire il valore economico della conoscenza nell'era dell'IA.

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La situazione attuale ha portato l’intero settore a porsi una domanda scomoda: se il lavoro giornalistico diventa un ingrediente invisibile per le risposte delle macchine, come può sopravvivere? Questa iniziativa, al di là del suo possibile successo, cerca di offrire una risposta importante, soprattutto quando entrano i costi - anche sostanziosi - della produzione di informazione verificata e di qualità.

La lenta agonia del modello "gratuito": clickk, pubblicità e dati

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Per quasi trent'anni, Internet si è basata su un patto non scritto tanto semplice quanto fragile: gli utenti potevano accedere a un'enorme quantità di contenuti senza pagare direttamente, offrendo in cambio la propria attenzione alla pubblicità e acconsentendo alla raccolta dei propri dati di navigazione. Questo modello ha permesso la nascita di migliaia di testate digitali, blog e fonti di informazione, ma ha anche mostrato presto i suoi limiti strutturali. La dipendenza dalla pubblicità si è rivelata un'arma a doppio taglio, spingendo molti editori a una corsa al rialzo per il numero di clickk.

Il patto ha iniziato a scricchiolare quando gli utenti hanno iniziato a manifestare la loro insofferenza alcuni anni fa. La pubblicità diventava sempre più invasiva, rallentando la navigazione e compromettendo l'esperienza di lettura. La risposta è stata la diffusione di massa dei software ad-blocker, strumenti che bloccano i banner pubblicitari e, con essi, la principale (unica in molti casi) fonte di reddito per moltissimi siti. Allo stesso tempo, una maggiore consapevolezza sulla privacy, spinta anche da normative come il GDPR in Europa, ha reso la raccolta e la monetizzazione dei dati personali più complessa e meno redditizia.

Un altro colpo è arrivato dalla disintermediazione. Le persone hanno smesso di visitare direttamente le homepage dei loro giornali preferiti. Il traffico web è stato progressivamente dirottato da aggregatori come Google News e dai feed dei social media. Piattaforme come Meta o TikTok sono diventate i nuovi guardiani dell'attenzione, specialmente per le generazioni più giovani. Per gli editori, questo ha significato perdere il rapporto diretto con il proprio pubblico e diventare dipendenti da algoritmi esterni e imprevedibili per distribuire i propri contenuti. 

In poche parole, se un sito riceve traffico lo “deve” a un intermediario; non sarebbe un problema se non fosse per il fatto che molti lettori di “accontentano” di quella piccola porzione di informazione nel feed personale su Facebook, Google News, TikTok e così via. E se il lettore non va sul sito del giornale, quel contenuto non ha prodotto alcun profitto.

In questo contesto di erosione costante, molti hanno tentato la via del paywall, chiedendo un abbonamento per accedere agli articoli. Questa strategia si è dimostrata efficace solo per le testate più grandi e autorevoli o per quelle dedicate a nicchie molto specifiche, capaci di offrire un valore unico e insostituibile. Per la grande maggioranza dell'informazione generalista, tuttavia, alzare un muro a pagamento si è spesso tradotto in un crollo della visibilità, lasciando irrisolto il problema della sostenibilità su larga scala. Mano a mano che più testate adottano il paywall, è lecito pensare che almeno alcune non ce la faranno. 

Il colpo di grazia dell'intelligenza artificiale

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Sopra questo modello di business già vacillante si è abbattuta l'intelligenza artificiale generativa. Strumenti come ChatGPT di OpenAI o Google AI Overview integrate nel motore di ricerca di Google non si limitano a suggerire link, ma fanno un passo ulteriore: leggono, elaborano e sintetizzano le informazioni da più fonti per fornire all'utente una risposta diretta e confezionata. Il click sulla fonte originale diventa, in molti casi, un passaggio superfluo, un'azione residuale. E a volte quel link non viene nemmeno mostrato.

Questo cambiamento è qualitativamente diverso dai precedenti. Mentre i social media e gli aggregatori avevano "solo" dirottato il traffico, le interfacce conversazionali lo stanno letteralmente sostituendo. Se un utente ottiene la ricetta, la biografia o la sintesi di una notizia direttamente nella pagina dei risultati, non ha più alcun incentivo a visitare i siti che hanno prodotto quell'informazione. Si tratta di una vera e propria cannibalizzazione del traffico web, che prosciuga la linfa vitale degli editori.

Le prime analisi confermano questa tendenza. Diversi studi indipendenti hanno già mostrato un calo significativo del traffico di riferimento proveniente dai motori di ricerca verso i siti di notizie e di contenuto da quando queste tecnologie sono state implementate su larga scala. Per l'industria editoriale, che già lottava con margini risicati, l'impatto è immediato e potenzialmente devastante, accelerando una crisi che covava da anni.

La promessa di questi strumenti è offrire un accesso più efficiente alla conoscenza. Tuttavia, questa efficienza ha un costo nascosto: l'invisibilità del lavoro giornalistico, di ricerca e di verifica che sta dietro ogni singola informazione. Se questo lavoro non viene più riconosciuto, né economicamente né in termini di visibilità, il rischio è un impoverimento dell'intero ecosistema informativo, con meno fonti originali e una maggiore dipendenza da sintesi algoritmiche.

La proposta di Perplexity: pagare per la citazione, non solo per la visita

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In questo scenario, Perplexity, che sviluppa un motore di ricerca conversazionale, ha avanzato una proposta differente con il suo programma Comet Plus. L'idea è di superare la metrica del click e creare un nuovo modello di condivisione dei ricavi che remuneri gli editori sulla base di come i loro contenuti vengono effettivamente utilizzati dall'intelligenza artificiale per costruire le risposte. Un cambio di paradigma fondamentale che tenta di dare un prezzo al contributo intellettuale.

Il sistema proposto si basa su tre diverse modalità di compensazione. La prima è quella classica: l'editore viene pagato quando un utente clicca sul link presente nella risposta dell'IA e visita il sito. La seconda, più innovativa, scatta quando l'IA cita esplicitamente un contenuto come fonte della sua risposta, anche se l'utente non clicca. La terza, ancora più avanzata, prevede un compenso quando gli "agenti AI" (assistenti intelligenti) usano proattivamente le informazioni di un sito per completare un'attività complessa per l'utente.

Questo approccio sposta il focus dal tentativo di catturare l'attenzione dell'utente al riconoscimento del ruolo di un contenuto come "fonte di verità" o dato fondamentale per l'algoritmo. In teoria, un modello del genere potrebbe incentivare la produzione di contenuti di alta qualità, accurati e ben strutturati, perché sarebbero proprio questi i più utili per l'intelligenza artificiale. Si monetizza il contributo, non più solo la visita.

Sebbene sia ancora in una fase iniziale e limitata a un numero ristretto di partner, l'iniziativa ha il merito di mettere sul tavolo una discussione non più rimandabile. Si tratta di riconoscere che nell'era dell'IA il valore non risiede solo nel portare un utente su una pagina, ma nel fornire i mattoni di conoscenza con cui vengono costruite le risposte che miliardi di persone riceveranno.

Da dove arrivano i soldi?

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L'idea è affascinante, ma solleva immediatamente una domanda pragmatica: è un modello economicamente sostenibile? La principale fonte di ricavo per un'azienda come Perplexity deriva dagli abbonamenti al suo servizio premium. È realistico pensare che una quota di questi ricavi possa bastare a compensare in modo equo un intero ecosistema di creatori di contenuti, che spazia dalle grandi agenzie di stampa ai blog specializzati? Il rischio è che le cifre distribuite siano irrisorie, una mancia simbolica più che un vero modello di business. 

Per alzare il compenso bisognerebbe alzare i prezzi, ma a quel punto gli utenti potrebbero pensare che non vale più la pena pagare l’abbonamento. Dopotutto il pubblico è forse sempre quello che da anni mal digerisce l’idea di pagare per l’informazione. 

La storia della tecnologia è piena di modelli di revenue sharing che hanno deluso le aspettative dei creatori. Piattaforme come YouTube o Spotify sono state spesso criticate per meccanismi di pagamento che favoriscono enormemente i contenuti più popolari, lasciando solo le briciole alla stragrande maggioranza dei partecipanti. C'è il pericolo concreto che anche questo sistema possa premiare solo i grandi nomi, lasciando i piccoli editori indipendenti con compensi insignificanti.

Inoltre, resta l'incognita del comportamento dei veri dominatori del mercato. Perché mai Google o Microsoft dovrebbero adottare un modello simile? Per loro, l'intelligenza artificiale generativa è uno strumento per difendere e rafforzare la loro posizione dominante nella ricerca e nei servizi cloud. Condividere una fetta significativa dei ricavi con gli editori andrebbe contro decenni di strategie volte a mantenere gli utenti all'interno del proprio ecosistema, riducendo al minimo il traffico in uscita.

Infine, un modello basato sulla citazione algoritmica apre a nuove forme di manipolazione. Chi garantisce che l'algoritmo scelga le fonti in modo trasparente ed equo? Potrebbe essere soggetto a bias o, peggio, a tentativi di "ottimizzazione" da parte di attori disonesti che cercano di far citare i loro contenuti a discapito di altri più meritevoli. La trasparenza dell'algoritmo diventa un prerequisito essenziale, ma storicamente è sempre stata il tallone d'Achille delle grandi piattaforme tecnologiche.

Oltre il business: il rischio della disinformazione sintetica

La crisi del modello di business editoriale si intreccia pericolosamente con un'altra minaccia: la disinformazione. Le intelligenze artificiali generative, pur essendo strumenti potenti, non sono infallibili. Sono soggette a errori, noti come "allucinazioni", durante i quali possono presentare informazioni false con la stessa apparente sicurezza di quelle vere. 

Come accennato sopra, poi, potrebbero verificarsi casi di poisoning, dove specialisti della disinformazione riescono a contaminare l’LLM, portandolo a trattare l’informazione fasulla come autentica e autorevole. È una specializzazione che già esiste e si chiama GEO, Generative Engine Optimization.

Un'informazione errata ma plausibile può essere generata e diffusa su larga scala con una velocità senza precedenti.

Il problema dunque si aggrava quando questi sistemi attingono da un web inquinato da fonti inaffidabili, propaganda o contenuti deliberatamente falsi. L'IA può involontariamente "lavare" queste informazioni, riproponendole in una sintesi ripulita e convincente, priva dei segnali di allarme che un lettore umano esperto potrebbe cogliere dal sito originale. L'utente finale riceve una risposta senza avere gli strumenti per verificare facilmente la catena delle fonti, fidandosi implicitamente dell'autorità dell'algoritmo.

Questo introduce quello che gli esperti chiamano un problema epistemico: una crisi del modo in cui sappiamo ciò che è vero. Se la nostra interfaccia primaria con la conoscenza diventa un'intelligenza artificiale che a sua volta impara da un mix di fonti vere e false, la distinzione tra realtà e finzione si fa sempre più labile. La diffusione della disinformazione non è più un'azione manuale, ma può diventare un processo automatizzato e sistemico.

Un modello che paga le fonti, come quello proposto, potrebbe teoricamente incentivare la qualità. Ma potrebbe anche essere sfruttato per diffondere disinformazione in modo più efficace. Chiunque riesca a far citare sistematicamente i propri contenuti dall'IA, veri o falsi che siano, ne trarrebbe un vantaggio economico, creando un incentivo perverso a inquinare l'ecosistema informativo per trarne profitto. La governance di questi sistemi diventa quindi tanto importante quanto la loro tecnologia.

La discussione sul futuro economico dell'editoria non può essere separata da quella sulla salute e l'integrità dello spazio informativo. La proposta di remunerare le fonti è un primo, incerto passo, ma rivela una verità più profonda: il vecchio patto di Internet è definitivamente rotto. Costruirne uno nuovo richiede di pensare non solo a chi paga per l'informazione, ma a come garantire che quell'informazione rimanga affidabile, verificabile e ancorata alla realtà. La sfida non è solo salvare un settore in crisi, ma assicurare che la conoscenza condivisa su cui si basa la società non venga erosa dagli stessi strumenti creati per renderla più accessibile.

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