Sono passati giusto un paio di mesi da quando vi parlai di AI Overview, la modalità di Google che mette subito in alto, nella pagina, un riassunto delle info che ricercate, e come cercai di dire anche al tempo, per me è cominciata da lì la fine del web così come lo conosciamo.
Quello che al tempo non sapevamo (e, ripeto, sono passati solo pochi mesi) è che Google avrebbe compiuto, ben presto, un altro passo verso la distruzione del web. Come? Con l'introduzione della cosiddetta "AI Mode", arrivata da poco anche nel nostro paese.
Un qualcosa che, come avrò modo di spiegarvi in questo articolo, avrà (ed in parte ha già) un impatto tangibile sia per gli utenti sia per i siti web, portando ad un cambiamento che riguarda la qualità dell’informazione e la struttura del traffico online.
Non siete convinti? Allora mettetevi comodi.
Cosa è cambiato?
Anzitutto, per comprendere la portata di queste modifiche, è necessario partire dal passato, ovvero dall’introduzione del "PageRank" da parte di Google, quell'algoritmo che valutava la qualità delle pagine e delle informazioni contenute, che cambiò il web e decretò il successo del motore di ricerca stesso, mettendo in secondo piano tutti gli altri concorrenti.
Un algoritmo che negli anni si è evoluto e raffinato, diventando sempre più sofisticato. Per farvi un esempio, a partire dai primi anni 2000 bastava riempire le pagine di keyword per posizionarsi su Google, ma col tempo si è passato dal mero inserimento delle keyword, ad un sistema che rendeva il motore di ricerca in grado di riconoscere, ed eventualmente premiare, la qualità dei contenuti dei vari siti, editori e produttori di contenuti.
In questo contesto, ad avere successo e, dunque, visibilità, erano i siti di valore. Che ricevevano traffico e utenti da Google che ne riconosceva e, in qualche modo, ne "garantiva" la qualità. Sostanzialmente Google mostrava i contenuti migliori e l’utente poteva fidarsi della loro attendibilità.
Con l’introduzione di AI Overview e AI Mode, questo modello sta cambiando radicalmente, e su più fronti. Google, infatti, ora non solo non premia più i siti web, ma foraggia i propri sistemi basati sulle IA utilizzando quegli stessi contenuti. Rimescolandoli, riassumendoli, re-impastandoli, e incidendo così sulla qualità dell’informazione, con addirittura la possibilità d’inserimento di errori.
In quest'ottica, siamo passati da un modello che prediligeva la qualità massima, a un modello che predilige la comodità e la velocità, che colpisce direttamente i siti web, e anche anche chi è fruitore passivo del web, quindi tutti noi.
Allarmismo inutile?
Come avrete capito, siamo dinanzi ad un nuovo modo di proporre le informazioni, con il sistema che non solo riduce la qualità dell'informazione restituita all'utente, ma che potenzialmente potrebbe offrire dati incorretti, in favore di risposte veloci e superficiali.
E qui, come anticipato in precedenza, oltre all’impatto sugli utenti, occorre considerare quello sulle testate web: i siti si ritrovano “derubati” di utenti e visualizzazioni, e quindi di ricavi. Ogni utente che non visita i siti rappresenta una perdita economica concreta e ritengo, io come tanti editori, che questo fenomeno non possa essere ignorato.
Anzi, semmai è i momento di comprendere l’entità reale del danno. Il quadro numerico degli ultimi dodici mesi è netto: l’adozione di risposte generate direttamente nel motore di ricerca ha spostato una quota crescente di attenzione e clic fuori dai siti, con effetti misurabili su traffico, CTR e ricavi. Non si tratta di opinioni, ma di numeri concreti.
La diffusione delle ricerche “zero-click”, quelle che non producono alcun accesso a siti terzi, è significativa: una ricerca del 2024 di SparkToro stima che circa il 58–60% delle ricerche su Google termini senza un clic verso l’open web. In media, su 1.000 ricerche nell’UE, soltanto 374 clic vanno a siti esterni.
L’effetto diretto sul comportamento in SERP è confermato da uno studio di BrightEdge, condotto un anno dopo il lancio di AI Overview negli Stati Uniti: le impressioni in Google Search sono aumentate del 49%, mentre il click-through è crollato di quasi il 30%. I siti continuano a essere mostrati nei risultati, ma gli utenti cliccano molto meno.
Similarweb segnala un calo medio del traffico ai siti di news del 26%, in parallelo a un aumento nell’uso di chatbot come ChatGPT per informarsi. Una parte rilevante del consumo informativo sta quindi migrando dalle pagine editoriali indicizzate a risposte sintetiche.
Search Engine Journal documenta una riduzione media del 32% del CTR della prima posizione dopo l’espansione di AI Overview tra agosto 2024 e maggio 2025. Prima di AI Overview, il primo sito mostrato nella ricerca riceveva praticamente il 100% dei click. Ora il sito migliore, secondo Google, viene cliccato almeno il 30% in meno.
Questi dati devono essere considerati nel contesto di un fenomeno in evoluzione: all’inizio AI Overview era disponibile solo su alcune query, ma il suo utilizzo sta crescendo costantemente. I numeri riportati sono dunque cautelativi; in uno scenario in cui AI Overview fosse presente in tutte le ricerche, l’impatto sarebbe ancora più drastico. Non va dimenticato che AI Mode spinge ulteriormente verso la riduzione dei click, comportandosi come un vero e proprio chatbot.
In sintesi, ad oggi il danno dell’implementazione dell’IA corrisponde a circa un terzo del traffico in meno, un terzo dei ricavi e un terzo delle risorse investite nella produzione di contenuti di qualità. Considerando i trend più recenti, questa percentuale è destinata ad aumentare, fino a coinvolgere la metà del traffico o più, con tutte le conseguenze che ne derivano.
La risposta di Google
Ovviamente, data la situazione complessa, molti analisti ed editori hanno chiesto a Google di dare conto di questo cambio, che sta impattando profondamente anche sul lavoro di moltissime aziende. Ebbene, Google ha più volte dichiarato che AI Overview, in realtà, non creerebbe alcun problema!
Anzi, l'azienda sosterrebbe che l’adozione della funzione ha aumentato la quantità di siti che possono essere mostrati nella ricerca. Il che, intendiamoci, è vero: i dati evidenziano un incremento nella visibilità dei siti. Tuttavia, il problema sta tutto nella visibilità, che non si traduce più in un traffico verso i siti stessi.
Insomma: i siti vengono mostrati, e vengono utilizzati come "prova" dell'utilizzo di Google di fonti per le sue risposte generate con l'IA, ma non vengono cliccati e, dunque, non ricevono traffico.
Perché allora il traffico cala? Secondo la posizione ufficiale di Google, le fluttuazioni di traffico deriverebbero da fattori multipli, tra cui aggiornamenti algoritmici e stagionalità. In sostanza, l’azienda sostiene che l’IA non rappresenti un problema reale.
I dati, tuttavia, raccontano un’altra storia. L’introduzione di risposte AI sopra i risultati tradizionali aumenta l’informazione “a colpo d’occhio” ma riduce il passaggio verso le fonti originali. Per gli utenti, questo significa meno frizioni: non devono fare un clic aggiuntivo per ottenere la risposta. Per i siti, invece, si traduce in una perdita diretta di traffico e fatturato. Un fenomeno che è destinato a peggiorare con AI Mode, che agisce come un chatbot, limitando ulteriormente l’interazione con i contenuti esterni.
L’IA di Google ci rende più scemi
E badate bene, perché il problema che abbiamo analizzato sino ad ora non riguarda solo la sfera economica ma, a mio avviso, anche quella cognitiva. Questo perché, come intuirete, questo nuovo sistema di risposte influenza direttamente le modalità con cui l'utente interagirà con le informazioni e la loro ricerca.
Oggi come oggi l’utente non è più chiamato a valutare criticamente le informazioni mentre prima, per capire se un articolo fosse affidabile, era necessario verificare su più fonti. Oggi, invece, l'utente riceve risposte pronte, plausibili, che spesso vengono accettate come corrette senza verifica.
Esempi e allucinazioni non mancano, eppure è evidente come ormai ciò che è "plausibile" stia progressivamente sostituendo quello che è invece "vero", volendo privilegiare velocità e comodità rispetto alla qualità.
Un principio che non è detto che vada a braccetto con l'accuratezza. Anzi, in questo senso i risultati offerti dalle IA riducono evidentemente la profondità e il rigore. Il che, se ci pensate, è paradossale per un'azienda come Google che, fino all'avvento delle IA, aveva la missione originale di fornire contenuti di qualità. Oggi, evidentemente, non è più così.
I link sono inutili e i siti muoiono
Ciò detto, torniamo alla linea di difesa di Google che, come abbiamo visto, sostiene che la sua IA inserisca tutte le fonti e che, anzi, grazie alla visibilità concessa ai siti che fanno da base alle risposte IA, la situazione sia un vantaggio per gli editori.
Qui, come abbiamo discusso, è che i dati statistici mostrano un quadro molto diverso da quello dipinto da Google. Ancora una volta lasceremo parlare i numeri: test condotti da Search Engine Journal e SEO Roundtable hanno confrontato il CTR di un sito nella prima posizione di Google in assenza di AI Overview con il CTR dei link presenti in AI Overview quando questa viene mostrata. Il risultato? Il tasso di click sui link di AI Overview è inferiore all’1%, contro una media del 25–30% quando non è presente.
Le fonti riportate dall’IA di Google servono soltanto a creare un’impressione di trasparenza, senza generare alcun tipo di interazione significativa.
Le conseguenze, sul medio periodo, sono pesanti: i modelli di sostentamento basati sulla visibilità organica stanno entrando in crisi. I siti di news vedono erodere la pubblicità, i blog tematici perdono le vendite affiliate, le piattaforme di confronto prezzi e le guide d’acquisto vengono escluse dalle risposte dirette dell’IA.
A questo punto val la pena porsi una domanda molto semplice: se produrre contenuti di qualità non genera ritorno, perché continuare a farlo? Perché investire tempo e risorse su qualcosa che non produce alcun risultato?
E se la risposta è "non ha senso continuare a generare contenuti", capirete che molte aziende chiuderanno, e molte persone resteranno senza lavoro.
Un percorso che, guardando anche oltre il mondo del lavoro, rischia anche di trasformare il web in un archivio statico di informazioni, dal quale l’intelligenza artificiale continuerà a estrarre valore senza alimentare chi mantiene vivo quell’archivio.
Il passo successivo sarà probabilmente la monetizzazione diretta dei contenuti, integrando pubblicità nelle risposte stesse o vendendo posizioni “sponsorizzate” all’interno dei riassunti. Il risultato? Non solo la qualità dell’informazione diminuirà, non solo gli utenti diventeranno più passivi e meno critici, ma saranno anche manipolati, in modo più o meno trasparente, da una Google che sta unilateralmente cambiando le regole del gioco.
Il conflitto d’interessi
Come saprete, Google si è sempre presentata come la garante dell’accesso globale all’informazione, insistendo sull’importanza di offrire a tutti la “migliore informazione possibile”. Purtroppo tutto questo finisce in secondo piano se, mentre predica apertura e trasparenza, l'azienda trae profitto proprio dal controllo di quell’accesso.
Direi che siamo dalle parti del classico "conflitto di interessi".
Se fino a poco tempo fa Google dettava le regole e l’intero ecosistema digitale (editori, aziende, creatori di contenuti, ecc...) contribuiva a costruire un web fondato sulla visibilità e sulla qualità dell’informazione, oggi con AI Overview e AI Mode la situazione si amplifica. Google non si limita più a mostrare i contenuti: li riassume, li rielabora, li monetizza, eliminando progressivamente tutto ciò che c’è intorno.
In termini economici, la questione è semplice: Google si appropria del valore informativo prodotto da altri. Ogni volta che AI Overview genera un riassunto basato su testi esterni, quel contenuto viene utilizzato per creare un’esperienza che riduce il traffico verso le fonti.
La conoscenza generata nel web aperto viene filtrata, sintetizzata e monetizzata da un unico intermediario.
Già nel 2019 l’Unione Europea aveva accusato Google di pratiche di self-preferencing (cosa ripetutasi anche lo scorso mese), cioè di favorire i propri servizi a discapito degli altri nei risultati di ricerca, ma con l'integrazione delle risposte AI, questo meccanismo si è fatto più sottile. Qui non si tratta più solo di spingere un proprio prodotto, ma di sostituire del tutto i contenuti esterni con risposte generate internamente. Una forma di “riciclo informativo” che prende valore dal web aperto e lo trasferisce in un ecosistema chiuso.
Un ecosistema che mostra ancora le porte per uscire, certo, ma lo fa in modo che nessuno voglia davvero varcarle.
Google, insomma, sta concentrando nelle sue mani un potere sull'informazione che non ha precedenti. Il potere di chi può controllare la narrazione e, con essa, il mercato e chi lo abita: ovvero noi.
Cosa succederà?
Ora che avete tutte le informazioni sulla questione, proviamo anche a immaginare quello che succederà nell'arco dei prossimi 12-24 mesi. Prospettiva per cui si creano, per lo meno, un paio di scenari.
In quello più favorevole, le autorità europee potrebbero imporre limiti alla preferenza automatica per i contenuti AI e vincoli sul posizionamento dei riassunti generati, restituendo una parte del traffico alle fonti originali. In questo modo, Google sarà costretta a modificare l’implementazione delle sue funzioni IA, rendendole più trasparenti e regolamentate il che, pur non corrispondendo ad un vero e proprio passo indietro, porterà comunque ad un nuovo equilibrio.
Certo, anche in questo caso sarà inevitabile una perdita di traffico per i siti, ma almeno una parte dell’ecosistema informativo sopravvivrà.
Nel secondo scenario, invece (che è purtroppo anche il più probabile), AI Overview e AI Mode diventeranno la modalità di ricerca predefinita, soprattutto su mobile. Le autorità garanti europee non riusciranno a intervenire per una regolamentazione giusta e tempestiva e, irrimediabilmente, il mercato subirà una lenta ma continua erosione.
Secondo le stime di Semrush e SparkToro, entro i prossimi mesi oltre il 70% delle ricerche su Google si concluderà senza un clic verso siti esterni. In pratica, solo tre ricerche su dieci continueranno a generare traffico verso il web aperto, traducendosi in un crollo dei ricavi pubblicitari.
Infine nel terzo scenario, che per altro è il peggiore, AI Mode (e più in generale i chatbot e i browser basati sull’intelligenza artificiale) diventeranno lo standard della ricerca. Google integrerà le risposte AI anche nelle query commerciali, inserendo pubblicità direttamente dentro i riassunti. L’utente, dunque, non vedrà più link, ma solo risposte con inserzioni native, offerte o suggerimenti sponsorizzati.
A quel punto, la percentuale di ricerche “zero-click” raggiungerà quasi la totalità. I siti web si ritroveranno con un terzo del traffico attuale, la pubblicità non varrà più nulla, i ricavi da affiliate si dimezzeranno nella migliore delle ipotesi. Tutto ciò che i publisher perderanno verrà trasformato da Google in profitto diretto.
Una simulazione di Reuters stima che, se questo scenario dovesse concretizzarsi, entro 12–24 mesi chiuderà almeno un terzo dei siti web mondiali, e molti altri sopravvivranno solo come ombre di ciò che erano.
Andando oltre i due anni, il web potrebbe tornare a un modello pre-Google: pochi grandi portali che attraggono tutto il traffico, e un’infinità di contenuti invisibili. L’IA deciderà cosa farti vedere, e tu dovrai fartelo bastare.
Insomma, se ad oggi l’economia del web è sempre stata basata su uno scambio implicito in cui il motore di ricerca e i siti web vivevano in un rapporto di mutuo beneficio, oggi le regole di questo patto non scritto sono state completamente cancellate da solo una delle due parti: Google. E se non verranno introdotti meccanismi di redistribuzione (revenue sharing, diritti d’autore sui dati, quote minime di traffico) il rischio è che, entro il 2026, il web aperto smetta di essere sostenibile.