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L'inganno della tecnologia al servizio dell'uomo

L'intelligenza artificiale non si adatta a noi: siamo noi che ci adattiamo a lei, modificando pensiero e comportamenti in una bolla perfetta.

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Avatar di Antonino Caffo

a cura di Antonino Caffo

Editor

Pubblicato il 10/11/2025 alle 11:45

La notizia in un minuto

  • L'intelligenza artificiale sta creando un nuovo digital divide cognitivo, dove chi ha accesso alle tecnologie avanzate ottiene vantaggi mentali rispetto agli altri, ma spesso in modo illusorio e acritico
  • Il cognitive offloading e il deskilling ci stanno trasformando da pensatori autonomi a operatori dipendenti, perdendo progressivamente competenze che richiedono pratica costante
  • Si sta affermando una monocultura algoritmica dove miliardi di persone usano gli stessi strumenti alimentati dagli stessi dati, causando un'omogeneizzazione pericolosa del pensiero e dell'espressione
Riassunto generato con l'IA. Potrebbe non essere accurato.

L'intelligenza artificiale sta davvero servendo l'umanità o siamo noi a esserci trasformati in suoi servitori inconsapevoli? È questa la provocazione lanciata da Fabrizio nel suo recente saggio intitolato "L'inganno della tecnologia al servizio dell'uomo", un testo che non si limita a descrivere le ultime novità del settore ma solleva interrogativi fondamentali sul nostro rapporto con la tecnologia. La questione non è più se gli strumenti digitali ci rendano più efficienti, ma se nel frattempo abbiamo modificato profondamente il nostro modo di pensare e di esistere per adattarci alle loro logiche.

Il riferimento cinematografico scelto per illustrare questa condizione è il film "The Truman Show", dove il protagonista vive intrappolato in una realtà apparentemente perfetta, ignorando tutto ciò che esiste oltre i confini della sua bolla. L'analogia funziona perché descrive efficacemente la nostra situazione attuale: circondati da sistemi che ci offrono risposte immediate e soluzioni preconfezionate, perdiamo gradualmente lo stimolo a cercare alternative o a interrogarci sulla natura stessa delle informazioni che riceviamo. Non si tratta semplicemente di adattare l'ambiente fisico alle macchine, come quando organizziamo la cucina per ospitare lavastoviglie e frigoriferi, ma di una trasformazione ben più profonda che coinvolge le nostre strutture cognitive.

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Il concetto di digital divide si è evoluto in modo inquietante rispetto alle sue origini. Un tempo il problema era l'assenza di infrastrutture digitali, poi la mancanza di competenze nell'utilizzo degli strumenti disponibili. Oggi il divario si manifesta come una differenza di capacità cognitiva aumentata tra chi ha accesso alle tecnologie più avanzate e chi ne resta escluso. "Questo fenomeno è stato reso esplicito dall'annuncio di Meta riguardo agli occhiali intelligenti" spiega l'esperto Fabrizio Degni, "dove il messaggio implicito suggerisce che chi li indossa acquisisce un vantaggio cognitivo rispetto a chi dispone solo del proprio cervello biologico. La forbice, anziché chiudersi grazie alla tecnologia, si allarga creando nuove classi di cittadini digitali".

Tuttavia, l'effettivo valore di questo "potenziamento" rimane discutibile quando si osservano le applicazioni concrete. Quante volte capita di vedere qualcuno che durante una discussione ricorre a ChatGPT per dimostrare di avere ragione, salvo poi ottenere una risposta palesemente errata? Il fenomeno ricorda le vecchie ricerche su Google brandite come prova inconfutabile, anche quando i risultati erano chiaramente inattendibili. Gli strumenti attuali, seppur avanzati, producono frequentemente contenuti raffazzonati che non garantiscono alcun reale vantaggio intellettuale a chi li utilizza in modo acritico.

Da otto miliardi di persone a dieci strumenti: tutti iniziamo a rispondere allo stesso modo

La profilazione algoritmica ha trasformato gli esseri umani da soggetti a oggetti delle decisioni tecnologiche. I sistemi di intelligenza artificiale ci misurano, ci categorizzano e prendono decisioni al posto nostro, mentre noi ci adattiamo passivamente alle loro indicazioni. Questo processo solleva interrogativi sul ruolo del prompt: stiamo davvero usando questi strumenti per esprimere la nostra creatività o stiamo semplicemente imparando a formulare richieste nel modo che le macchine preferiscono? Il rischio è diventare operatori piuttosto che pensatori, tecnici che sanno come estrarre informazioni dai sistemi ma hanno perso la capacità di elaborarle autonomamente.

Due fenomeni psicologici caratterizzano questo processo di subordinazione tecnologica. Il cognitive offloading descrive la tendenza a scaricare compiti cognitivi sulle macchine: un esempio quotidiano è chiedere a un LLM di riassumere documenti che dovremmo leggere personalmente, come i verbali delle riunioni scolastiche. Il deskilling rappresenta la conseguenza a lungo termine, quando a forza di delegare perdiamo progressivamente competenze che richiedono pratica costante. I medici che smettono di analizzare direttamente i risultati diagnostici perdono gradualmente l'occhio clinico, quella capacità di individuare anomalie al primo sguardo che deriva dall'esperienza diretta e continuativa.

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"Si sta configurando quello che potremmo definire una monocultura algoritmica: miliardi di persone utilizzano gli stessi dieci strumenti, alimentati dai medesimi dataset costruiti sui contenuti disponibili in rete, allineati culturalmente secondo la visione prevalentemente americana delle aziende che li producono". Il risultato è una progressiva omogeneizzazione del pensiero e dell'espressione, dove tutti iniziamo a formulare idee simili e a comunicarle con strutture linguistiche identiche. Non è tanto il rischio di sbagliare tutti insieme quanto quello di perdere la diversità cognitiva, la ricchezza che deriva da prospettive differenti e modalità espressive personali.

Esistono possibili vie d'uscita da questa trappola? Una prospettiva interessante proviene dai ricercatori di Stanford, che propongono di privilegiare l'augmentation rispetto all'automation. Significa utilizzare l'intelligenza artificiale per potenziare le capacità umane nei lavori esistenti, anziché sostituire completamente i lavoratori. Questo approccio richiede però un impegno serio nell'upskilling e nel reskilling, ovvero nella riqualificazione professionale delle persone, che non può limitarsi a dire "domani farai un altro lavoro" dopo vent'anni nella stessa posizione. I cosiddetti "superpoteri" offerti dall'IA dovrebbero servire a rendere il lavoro più efficiente e meno gravoso, non a rendere obsoleto chi lo svolge.

La questione solleva un interrogativo più ampio: è accettabile trovarci in competizione non solo con colleghi e concorrenti umani, ma anche con le macchine? Storicamente, ogni innovazione tecnologica ha reso obsolete certe competenze: la scrittura ha sostituito la tradizione orale, i filatoi meccanici hanno superato la filatura manuale. Ogni volta l'umanità ha scoperto nuove possibilità, liberando energie per attività più complesse. La differenza fondamentale con l'intelligenza artificiale risiede nella velocità del cambiamento, talmente accelerata da non lasciare il tempo necessario per adattarsi e reinventarsi professionalmente.

Il nodo cruciale rimane quindi temporale: mentre le rivoluzioni industriali del passato si sono sviluppate nell'arco di generazioni, permettendo aggiustamenti graduali, l'attuale trasformazione digitale procede con una rapidità che impedisce i normali processi di adattamento sociale ed economico. Chi oggi svolge mansioni cognitive a basso valore aggiunto rischia di essere sostituito prima di aver avuto la possibilità di acquisire nuove competenze. La soluzione non può essere semplicemente diventare "persone migliori" o più qualificate, ma richiede una riflessione collettiva su quale tipo di società vogliamo costruire e quale ruolo assegnare effettivamente alla tecnologia nel tessuto delle nostre vite.

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