È bastato un triennio perché l'intelligenza artificiale generativa passasse dallo status di curiosità rischiosa a quello di imperativo categorico per la sopravvivenza del business. Se nel 2023 il timore dominante tra i decisori delle Fortune 500 riguardava la fuga di dati e la responsabilità legale, oggi, alle soglie del 2026, la narrazione è diametralmente opposta. I dati parlano chiaro: l'88% dei senior leader aziendali negli Stati Uniti prevede di aumentare gli investimenti in GenAI nel prossimo anno, spinti non più dalla paura di adottarla, ma dal terrore di rimanere indietro - cioè la classica FOMO. Siamo di fronte a un cambio di paradigma che non riguarda solo l'IT, ma l'intero sistema operativo delle aziende; in sostanza, l’IT diventa terreno di competizione. Si cerca di avere una dotazione tecnologica migliore del concorrente, perché si suppone che sarà quella a determinare vincitori e vinti. Un gioco che appare sensato in effetti, ma che - doveroso ricordarlo - per ora è più immaginazione che realtà.
Questa accelerazione, tuttavia, non è priva di ombre e riflette una dualità tipica delle grandi transizioni tecnologiche. Da un lato c'è l'entusiasmo dell'adozione, dall'altro l'incertezza della misurazione. La corsa all'integrazione dell'IA nei processi core sta avvenendo a una velocità che spesso supera la capacità delle organizzazioni di comprenderne appieno l'impatto a lungo termine. Non si tratta più di discutere se l'IA sia utile, ma di capire come metterla nelle operations senza distruggere valore. È qui che forse si deve alzare un sopracciglio: stiamo correndo verso l'efficienza o stiamo solo automatizzando la mediocrità? Sì perché se si pone l’accento, l’unico accento, solo sul fare più in fretta spendendo meno, è molto facile finire anche per fare peggio, fare male, perdendo di vista la qualità.
La dittatura dell'adozione e il paradosso dei dati
L'analisi, condotta dalla Wharton School in collaborazione con GBK, Collective ci restituisce una fotografia nitida di questa frenesia. Il balzo nell'utilizzo quotidiano è impressionante: se nel 2023 solo il 37% dei leader senior utilizzava l'IA settimanalmente, oggi la percentuale è schizzata all'82%, con quasi la metà che dichiara un uso giornaliero. Questo dato evidenzia come l'IA generativa sia ormai percepita come una "general-purpose technology", paragonabile all'elettricità o a internet, destinata a permeare ogni livello dell'organizzazione.
Tuttavia, l'adozione massiccia non deve essere confusa con l'integrazione strategica. Mentre le PMI e le aziende di medie dimensioni mostrano una maggiore agilità nel tradurre questi strumenti in risultati rapidi, le grandi enterprise faticano a gestire la complessità dell'integrazione su larga scala. È un fenomeno che richiama la classica curva di apprendimento tecnologico: investire è facile, far funzionare i nuovi sistemi in architetture legacy complesse è la vera sfida. In questo scenario, settori come il banking e i servizi professionali sembrano essere i più pronti a capitalizzare, ma il divario tra chi sperimenta e chi produce valore reale resta ampio.
ROI: Tra realtà e percezione
Il punto più critico di questa trasformazione riguarda il Ritorno sull'Investimento (ROI). Sebbene quattro manager su cinque si aspettino ritorni positivi entro due o tre anni, le metriche utilizzate per giustificare questi investimenti appaiono ancora fumose. Stefano Puntoni della Wharton School utilizza un termine che dovrebbe far riflettere ogni CFO: "vibe". Molte valutazioni attuali si basano più su una sensazione di progresso che su "hard evidence" o dati incontrovertibili.
Stiamo di nuovo guardando alle decisioni prese per istinto, quando invece avevamo giurato di diventare tutti adepti alla data driven decision. Sì, e magari vorremmo davvero, ma di dati non ce n’è quando si tratta di storicità nell’uso dell’AI in ambito aziendale.
A confermare questo scetticismo interviene anche un recente report del MIT Technology Review, che sottolinea come la maggior parte delle aziende stia ancora lottando per generare un ROI immediato che vada oltre la semplice automazione del back-office. L'efficienza operativa è un KPI tangibile, certo, ma l'IA generativa prometteva rivoluzioni creative e strategiche che, al momento, faticano a emergere nei bilanci. C'è il rischio concreto che l'entusiasmo per la tecnologia stia drogando le aspettative, creando una bolla di investimenti basata su proiezioni ottimistiche piuttosto che su guadagni consolidati.
Il fattore umano: Atrofia o evoluzione?
Al di là dei numeri, la sfida più insidiosa è quella culturale e umana. Il rapporto evidenzia un pericolo che definirei esistenziale per il management moderno: la "skill atrophy". Il 43% dei leader avverte che l'eccessiva delega all'IA potrebbe erodere le competenze critiche della forza lavoro. Un fenomeno di cui hanno parlato anche altri, descrivendolo come deskilling.
Se l'IA scrive il codice, analizza i dati e redige i report, cosa resta al professionista umano? La risposta non può essere solo la supervisione. E se anche i professionisti senior non sono particolarmente esposti, molte aziende stanno cercando di “ottimizzare” riducendo il numero di figure junior. Può funzionare nel breve termine, ma tra qualche anno potremmo scoprire che non era una buona idea - ma potrebbe essere troppo tardi.
Le aziende si trovano di fronte a un bivio: investire parecchio nella formazione o accettare una dipendenza strutturale dalla macchina. Non basta implementare la tecnologia; serve una governance che mantenga l'uomo al centro del processo decisionale ("Human in the loop"). Senza una strategia chiara di formazione e gestione del cambiamento, l'IA rischia di trasformarsi da moltiplicatore di intelligenza a sostituto della competenza, creando organizzazioni tecnologicamente avanzate ma intellettualmente fragili.
Guardando al 2026, la domanda che ogni manager dovrebbe porsi non è "quanto budget allocare all'IA", ma "come sta cambiando il nostro modo di pensare a causa dell'IA?". Se stiamo investendo miliardi per fare le stesse cose di prima solo un po' più velocemente, stiamo sprecando un'occasione storica.
La vera rivoluzione non è nell'automazione, o nel banale efficientamento. È nella capacità di immaginare nuovi modelli di business che prima erano inconcepibili, e in quella di fare meglio, non di più o più in fretta.