Blonde, recensione: fatti a pezzi da Marilyn Monroe

Blonde sconvolge e affascina: una Marilyn Monroe a pezzi, che sa ridurre a brandelli anche i suoi spettatori.

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a cura di Elisa Erriu

Si dice ancora oggi "biondo Marilyn Monroe" e con questo si allude a un colore preciso, una personalità precisa. Alcuni lo identificano persino con uno specifico stile di vita. Ma sulla vera identità di Marilyn Monroe, su chi si nascondesse sotto quella celebre pettinatura bionda, si sa ancora oggi poco. Perché quando Marilyn era viva, non importava cosa pensasse, lei era soltanto il passatempo dei mariti quando le mogli non erano a casa, una divina, sorridente, ammiccante "pupa". Nulla più. Questo è ciò che ci presenta su Netflix Andrew Dominik, il regista di Chopper e di alcuni episodi di Mindhunter, attraverso la sua ultima pellicola che ha fatto scalpore al Festival di Venezia, Blonde, in cui ha fotografato una Marilyn fatta di paure, tormenti, ossessioni, paranoie e soprattutto carne, traendo ispirazione dall'omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, lo stesso che ha concorso alle finali per il Premio Pulitzer nel 2000.

Ve lo diciamo subito: siamo sicuri che Blonde vi spiazzerà, vi angoscerà, forse potreste persino non volerlo vedere fino alla fine. Sia per la lunghezza del film (167 minuti), sia per la pesantezza dei temi trattati. Tuttavia noi insistiamo: Blonde deve essere visto. Sì, è inadatto per chi sta cercando qualcosa che lo diverta, ci sono scene di violenza, crude, esplicite. Ma non importa, perché "tanto è soltanto" un film. Blonde deve essere visto, soprattutto in un'epoca in cui le donne vengono ancora massacrate a morte per qualche straccio messo male sul corpo. Blonde è il corpo di Ana de Armas, ma soprattutto il suo talento, che viene schiacciato proprio come capitò a Marilyn, stretta in un angolo della sua anima al punto da farci patire di claustrofobia. C'è infine una morale, che si alza e scopre la verità proibita, come la gonna della diva. Si va in scena.

Blonde: bionda come il fuoco

Il film inizia con un pugno dritto in faccia: il flash delle vecchie macchine fotografiche ci tramortisce, nonostante una voce calda e sensuale ci dice che quello è il nostro cerchio di luce. Lì dentro, siamo al sicuro. Questo è ciò che impara Marilyn Monroe durante il corso all'accademia di recitazione, prima di diventare attrice, prima di diventare un'icona.

Prima di tutto questo, lei si chiamava Norma Jean. E lei impara proprio questo, la contraddizione: ciò che dice di amarti, ti ferisce. Lo fa tuo padre, anche se non lo conosci. Lo fa tua madre, anche se pensi di conoscerla. Assistiamo alla sua infanzia e impotenti, sui nostri comodi giacigli, vediamo una bambina malmenata dalla furia di un genitore privo d'affetto. Gladys, la madre di Norma, interpretata da Julianne Nicholson, è una donna che ha reso i suoi peccati il proprio credo religioso. Convinta che attraverso la gravidanza potesse tenere a sé un uomo, fa nascere e crescere Norma. Ma col tempo neppure lei crede più alle sue stesse menzogne e così, in una panoramica di luci e ombre, di fuoco e cenere, vediamo Norma venire abbandonata da quella stessa misera e miserabile speranza, che dovrebbe chiamarsi "amore", a cui cerca anche lei di aggrapparsi strenuamente.

Bionda come il sangue

Il regista Dominik accarezza la pelle di Marilyn nella sua trasformazione da Norma a Monroe, è dolce e innocente come il vestito candido della diva. Ma ogni sua ripresa è uno sguardo di sottecchi, è una sbirciatina a ciò che si nasconde sotto la gonna. Dominik fa della sua regia e della sceneggiatura un vestito, in cui Ana de Armas calza a pennello. Niente è casuale, tutto è spietato. D'altronde il film si chiama "Blonde", non Marilyn, non Norma. Dominik rappresenta un oggetto, un aggettivo, così come Marilyn era stata identificata così, "la bionda d'America". Ed ecco, dunque, che il regista gioca con la cinepresa e le riprese, con i riflessi e i grandangoli, con le inquadrature e soprattutto i colori.

Le musiche di Nick Cave e Warren Ellis ricordano a tratti il viaggio straziante e straziato del Joker di Todd Phillips e d'altronde il confronto è calzante: sia Marilyn sia il Joker di Joaquin Phoenix portavano una maschera sorridente. Ma è soprattutto la fotografia, di Chayse Irvin, a conturbare lo spettatore, che noterà come questa ricalchi fedelmente pose, scatti, ambientazioni e pezzi di carne dell'epoca. C'è tutto al suo posto, proprio come capitava in quegli anni: alcune scene riprendono persino in maniera estremamente accurata le foto più famose dell'attrice.

Così tutto è mostrato, tutto, dal corpo sensuale e sfacciato fino agli aborti. Difficile dire quanto sia avvenuto davvero, per quanto sia stato indagato sulla vita di Marilyn dopo la sua morte, molto del suo passato rimane segreto. Con il documentario "I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti" erano state rivelate informazioni importanti in merito alla sua salute mentale, molte delle quali ancora sconosciute. Tuttavia ancora oggi non si sa molto del suo tragico epilogo o del rapporto con il Presidente Kennedy. Anche per questo il film vi turberà.

Bionda come la luce

Non si può fare un film di Marilyn senza gli uomini della sua vita: attraverso una esorcizzante ed efferata analisi psicologica, comprendiamo il rapporto travagliato tra l'attrice e suo padre, che anche nella realtà Norma non ha mai avuto modo di conoscere. Un dettaglio rilevante, perché comprendiamo che Marilyn in Blonde è sostanzialmente, nel corso di tutta la sua vita, un'innocente bambina che sta cercando suo padre.

Lo cerca nel suo rapporto poliamoroso con Charles "Cass" Chaplin Jr. (Xavier Samuel) ed Edward G. "Eddy" Robinson Jr. (Evan Williams), in cui si rivede, si libera e scopre le gioie di una maternità perduta. Lo cerca successivamente in Joe DiMaggio, interpretato da Bobby Cannavale, il marito geloso che la picchia per ciò che lei rappresenta. Lo cerca infine, ancora una volta, nel matrimonio con Arthur Miller, con un dolce Adrien Brody e un'altra gravidanza. Ma Marilyn non riuscirà mai a essere madre e il suo "daddy", così come l'ha spinta verso la luce alla nascita, la spingerà verso la luce, per l'ultima volta.

Blonde: bionda come Marilyn

"Sono solo una bionda", lo diceva persino Marilyn stessa. Non era un'attrice, non era una donna, non era altro che una bionda. Non era neppure davvero felice. Conosciamo di lei un sorriso stupendo, incorniciato da labbra rosse provocanti e poco più in là, l'iconico neo di bellezza. Ma se guarderete Blonde, se riuscirete a vederlo fino alla fine (e noi vi consigliamo proprio di farlo), scoprirete la morale più aspra del film: Marilyn non era Marilyn.

Marilyn Monroe è una bella bugia, è la critica contro la società americana degli anni del proibizionismo e del dopo guerra, quelli che alcuni definiscono "gli anni ricchi d'America". E anche questo non è vero, Blonde è una critica di ieri, di oggi e di domani. Blonde è un piatto di carne da consegnare a domicilio al Mr. President, perché Marilyn non la prendono per le sue doti e la sua cultura, per il fatto di saper argomentare Dostoevskij all'interno di una conversazione, per le sue sconvolgenti capacità di immedesimazione nei ruoli che vorrebbe interpretare. No, la prendono per il suo corpo. Così Marilyn diventa uno specchio, che rompe lei stessa, anno dopo anno, finché non c'è più niente a cui aggrapparsi e la cinepresa smette di girare.

Credeteci: Blonde è un film che sa fare male e ridurrà molti di quelli che lo guarderanno a minuscoli pezzetti e brandelli. Se siete donne, potrebbe farvi anche più male.