Electric State, la recensione: l’incubo distopico di Simon Stålenhag

Electric State è un artbook narrativo di Simon Stålenhag che racconta il viaggio di un’adolescente della fine degli anni Novanta e del suo piccolo robot.

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a cura di Davide Vincenzi

Electric State, pubblicato da Mondadori per la collana Oscar Ink, è il terzo artbook narrativo di Simon Stålenhag, apprezzato e talentuoso artista svedese conosciuto soprattutto per le sue opere raffiguranti un’ucronica e retrofuturistica Svezia degli anni Ottanta e Novanta, raccolte negli artbook Loop (Tales From the Loop, 2014), di cui potete leggere la nostra recensione, e Things From the Flood (2016, ancora inedito in Italia). Come sicuramente già saprete, da queste è opere è stata tratta una serie omonima, Tales from the Loop, disponibile su Amazon Prime Video.

Come per le opere precedenti di Stålenhag, anche con questo Electric State, più che di fronte a un libro illustrato ci troviamo innanzi a un vero e proprio artbook che raccoglie le opere d’arte digitale iperrealiste e retrofuturiste dell’autore, che fondono sapientemente soggetti spiccatamente fantascientifici con ambientazioni suburbane e paesaggi naturali reali o realistici. Questa volta, però, ci troviamo di fronte a un’America della fine degli anni Novanta, con un sapore decisamente distopico e angosciante

Electric State, quando dal sogno si passa all’incubo

La guerra era stata combattuta e vinta dai piloti di droni, persone che stavano in sale di comando lontane dai campi di battaglia, dove macchine senza conducente si erano scontrate tra loro in un gioco di strategia durato più di sette anni. I piloti dell’esercito federale avevano vissuto una vita tranquilla nei nuovi sobborghi dove, sulla via che dal lavoro li riportava a casa, potevano scegliere tra trenta tipi diversi di cereali per la colazione. La tecnologia dei droni era apprezzata poiché ci aveva risparmiato inutili perdite di vite umane.

I danni collaterali erano stati di due tipi: i civili che avevano avuto la sfortuna di cadere vittime del fuoco incrociato e i figli dei piloti federali che, in tributo alle divinità delle tecnologie per la difesa, nascevano tutti morti.

Con queste parole si apre Electric State, immergendo subito il lettore in una realtà tutt’altro che piacevole. Laddove in Loop il testo, associato alle immagini, presentava un senso di fanciullesca innocenza, sebbene calata in uno strano retrofuturismo ricco di macchine inspiegabili e di atmosfere agrodolci, Electric State mostra un ossessionante 1997 alternativo, postbellico, post-siccità e finanche post-umano.

La prima vera e propria opera d’arte che ci si ritrova di fronte aprendo il volume è una distesa desertica costellata di scheletrici cadaveri umani con ancora calzato in testa uno strano apparecchio, il Sentre Stimulus TLE o neurocaster, una sorta di visore per la realtà virtuale portato all’ennesima potenza e diventato una specie di droga collettiva.

Electric State, l’opera.

La storia raccontata da Electric State è celata tra le righe di testo presenti a corredo delle stupefacenti illustrazioni e si dipana attraverso due diversi punti di vista e due voci narranti, ben distinte tra loro anche grazie a un espediente grafico.

La prima, con testo nero su sfondo bianco, è la voce della giovane protagonista, Michelle, una ragazza di diciannove anni che, in una sorta di diario di viaggio svela al lettore il suo passato e cosa la spinge a farsi strada attraverso le regioni occidentali americane, accompagnata dal piccolo robot Skip e portando con sé un kayak, un fucile da caccia e un’auto rubati.

Destinazione, una lingua di terra che si estende nell’oceano Pacifico, poco distante da ciò che rimane di San Francisco. Perché lì c'è una casa e al suo interno qualcosa che per lei è molto importante e che deve recuperare. Per arrivarci dovrà superare una regione abbandonata, desertificata, militarizzata e in decomposizione, costellata di relitti della guerra e strane creature metalliche, simili a quelle di Loop, ma decisamente più paurose e inquietanti, in uno scenario che potremmo tranquillamente definire post-apocalittico.

La seconda voce narrante è quella di un individuo sconosciuto che si rivolge a qualcuno, anch’egli sconosciuto. È una commistione tra una sorta di lezione di storia e un disquisire metafisico, che definisce l’ambientazione in cui si svolge la vicenda e spiega al lettore come gli Stati Uniti si siano persi a causa della nuova tecnologia Sentre Stimulus.

Inizialmente sviluppata come interfaccia neuronica per i piloti di droni da combattimento per guidare da remoto i loro mezzi, questa tecnologia è in seguito fuoriuscita dai bunker e dai laboratori di ricerca e sviluppo della Difesa ed è divenuta una nuova forma di intrattenimento. Grazie a essa, indossando il visore neurocaster le persone possono fuggire per un po’ dalla realtà e inserirsi in una coscienza globale collettiva, giocare, condividere emozioni e sensazioni e rinascere, tutti nuovi e splendenti.

In un continuo alternarsi di punti di vista, Michelle racconta la sua storia, alcune centinaia di parole alla volta, registrando le proprie impressioni, narrando di accecanti tempeste di polvere e negozi di generi alimentari sorvegliati da adolescenti con armi da fuoco. E lentamente si volge verso il suo passato, le ragioni del suo viaggio e la sua relazione con il piccolo robot dalla grande testa gialla viene svelata a poco a poco.

Nel frattempo, la lezione di storia dello sconosciuto diventa sempre più simile a una serie di ordini impartiti all’altro uomo misterioso che, a quanto scopriremo, ha seguito Michelle fino a San Francisco. E quando le due narrazioni finalmente si incontrano, lo fanno in silenzio. Sono solo le immagini a darne conto. Come istantanee di un passato orribile che non si riesce a dimenticare. Eppure, nel finale, anch’esso narrato solo attraverso le immagini, permane una sorta di labile speranza, al lettore decidere in che forma e misura.

L’arte di Simon Stålenhag

Simon Stålenhag, nato il 20 gennaio 1984, è un artista, musicista e designer svedese specializzato in dipinti futuristici e retrofuturistici digitali.

L'arte di Stålenhag sa suscitare in chi l’osserva una particolare miscela di emozioni, che vanno dal malinconico allo straziante, con la sua combinazione di tediose abitazioni dei quartieri suburbani, architetture brutaliste, auto squadrate tipiche degli anni Ottante e macchine puramente fantascientifiche dalle linee eleganti.

La rappresentazione del decadimento e dell'abbandono, sempre espressi in maniera magistrale, è uno dei suoi tratti distintivi, come ampiamente dimostrato dalle sue opere precedenti. Questo artista ha innegabilmente la capacità di saper fondere in modo credibile paesaggi e tecnologie vecchie e nuove in un intrico di cavi e luci lampeggianti.

Ma in Electric State, Stålenhag va addirittura oltre, mostrando con estrema crudezza un’America del tutto degenerata, in cui il sogno americano è stato sostituito da quello offerto dalla droga del visore neurocaster e in cui uomo e macchina si fondono sostanzialmente in una sono una cosa sola, come nelle più classiche opere di genere cyberpunk .

I corpi mostrati nelle illustrazioni, quando non vagano in branco come moderni zombie tecnologici, sono del tutto abbandonanti, con le menti dei loro proprietari perse nella convergenza neurale all'interno dei visori che indossano i suoi drogati di Sentre. Sono emaciati e scheletrici, mantenuti in vita solamente dalla macchina che ne alimenta i cervelli.

I robot giganti che sporcano il paesaggio quando non sono divertenti e infantili, e per questo ancora più inquietanti, sono residuati bellici, terrificanti nel loro potenziale distruttivo, o abomini di cavi penzolanti, costruiti con rottami e pezzi di ricambio, tecnologici mostri lovecraftiani che perseguitano centri commerciali e piazzole di sosta autostradali.

Conclusioni

Con Electric State, Simon Stålenhag alza l’asticella rispetto a quanto mostrato nelle opere precedenti, grazie a una narrazione più strutturata e completa. Dal punto di vista artistico, il livello è sempre altissimo e non c’è tavola che non saprà suscitare emozioni nello spettatore.

Se in Loop, le sensazioni erano soprattutto quelle di struggenti nostalgie per un’epoca in realtà mai vissuta, con quest’opera l’autore instilla nel lettore sentimenti di inquietudine se non addirittura di angoscia. Si arriva quasi a ringraziare che un simile passato distopico non sia realmente esistito e ci fa sperare che non debba accadere, poiché i numerosi riferimenti alla cultura pop passata e presente all’interno delle illustrazioni sono fin troppo familiari e rendono il tutto fin troppo realistico.

Per tutto quanto abbiamo enunciato finora, non possiamo che consigliare l’acquisto di Electric State a ogni amante della sci-fi distopica, dell’arte retrofuturista e degli scenari post-apocalittici, siamo certi che non ne resteranno delusi. Da parte nostra, non possiamo che incitare Mondadori a pubblicare al più presto anche Things From the Flood, non vediamo l’ora di poterlo sfogliare.