Monster, recensione: le diverse facce della verità

Monster, storia di una causa in cui la verità non ha un unico volto, nascondendo segreti e rimorsi. Su Netflix dal 7 maggio.

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a cura di Manuel Enrico

Mostro. Con questo termine viene spesso dipinto chi si macchia di orrendi delitti, rendendolo immediatamente inviso alla gente comune, un elemento estraneo da stigmatizzare all’interno del consesso civile della gente perbene. Si basa su questo assunto Monster, il nuovo film Netflix in uscita il 7 maggio, che ritrae una vicenda umana appassionante, drammatica, profondamente contestualizzata nella società americana. Su questa pagine, abbiamo già segnalato come sempre più spesso il mondo dell’entertainment si stia aprendo a una caratterizzazione sociale dell’anima più sincera degli States, che ci ha offerto scorci vividi e reali come Concrete Cowboy, Elegia Americana o il vincitore dell’Oscar Nomadland, disponibile ore nel catalogo Star di Disney+.

Non è la prima volta che monster viene usato come titolo per una legal drama. Nel 2003, l’allora esordiente Patty Jenkins utilizzava proprio questo termine per il suo film, Monster per l’appunto, con cui ritraeva la drammatica storia dell’assassina seriale Aileen Pittman. Due storie molte diverse, quelle di queste due pellicole, ma che hanno alla radice della propria narrazione quell’idea di mostro con cui vengono sempre più sovente marchiati i criminali. Se in alcuni casi, l’efferatezza dei crimini commessi può motivare questo termine, la vicenda di Steve Harmon rientra in questa casistica?

Monster, tutte le facce della verità

È su questo assunto che si basa la caratterizzazione emotiva di Monster. Quando sentiamo per la prima volta il procuratore distrettuale Anthony Petrocelli (Paul Ben-Victor) affibbiare questo sgradevole epiteto al giovane Steve Harmon (Kelvine Harrison Jr.), accusato di aver preso parte a una rapina presso un piccolo negozio di Harlem, finita in tragedia. Al processo, Steve viene affiliato a William King (Rakim Mayers), un noto esponente della piccola criminalità del quartiere, conosciuto alle forze dell’ordine e considerato l’ideatore della rapina, in cui Steve sarebbe stato coinvolto come palo.

La dissonanza con questa figura di criminale di Steve viene creata sin dalle prime battute del film, in cui il giovane ci viene presentato come il tipico adolescente di Harlem, figlio di una buona famiglia composta dal padre (Jeffrey Wright), madre (Jennifer Hudson) e il fratello minore di Steve. Ottimo studente, appassionato di cinema e con il sogno nel cassetto di poter entrare in questo mondo, Steve vive la tipica vita di un teen ager di buona famiglia, tra lezioni, uscite con gli amici e i primi amori. A cambiare la sua esistenza, interviene la casuale conoscenza con William King, giovane criminale di Harlem da cui Steve rimane affascinato per via del suo ruolo all’interno della comunità.

Su questo punto, Monster si sofferma con molta attenzione, identificandolo come il punto centrale della trama. Harlem è storicamente il quartiere della cultura afroamericana della Grande Mela, al contempo punto nevralgico della consapevolezza afro e una delle criticità della metropoli in quanto a criminalità. Un aspetto che viene spesso ricordato, seppure in maniera sottile, in Monster, specialmente dall’accusa, che non esita a insistere su questa onta della vita di Steve: essere di Harlem.

La sceneggiatura di Monster, basata sul romanzo omonimo di Walter Dean Myers, si muove agilmente su questo spunto, propagandosi poi in altre direzioni più intime dei protagonisti. Se da una lato l’assunto del pregiudizio sociale viene fortemente spinto all’interno dell’aula di tribunale, nei flashback in cui assistiamo alla ricostruzione concreata degli eventi in questione l’occhio del regista Anthony Mandler si concentra principalmente sul ritrarre la vita di Steve intrecciandola al suo quartiere, al suo ambiente.

https://youtu.be/LNvse5FSR6c

Vediamo quindi il ragazzo che vaga per Harlem in cerca della luce perfetta e della storia per realizzare il suo film, seguendo i preziosi suggerimenti del suo insegnante, Leroy Sawicki (Tim Blake Nelson). È proprio basandosi sulle nozioni trasmesse da Sawicki che Steven è in cerca della verità, quell’impulso che gli consenta di cogliere le sfumature per la sua storia. Su questa spinta, inconsciamente, si avvicina a King, ne percepisce l’aura di perigliosa autenticità e lo elegge a sua musa, ne segue le vicende e i modi senza comprendere come rischi di venire assorbito da questa figura tossica.

Qui si racchiude il cuore di Monster, il comprendere dove stia la verità, dove sia il momento in cui Steven imbocca una strada che rischia di compromettere la sua esistenza. È lo stesso ragazzo a raccontare le sue sensazioni, voce narrante del film che ci apre la sua anima, tra ansie, rimorsi e momenti di atterrita ansia, un ragazzo che credeva di avere appreso le regole del mondo ma che scopre solo ora come ci siano sfumature che non padroneggia.

L'altro lato della legge

Monster, pur basandosi sulla perfetta definizione dell’emotività di Steven, amplia questo discorso alla relazione tra ambiente e individuo. Petrocelli non esita a demolire ogni tentativo di rendere Steven un ‘bravo ragazzo’, adducendo come dimostrazione della sua colpevolezza il quartiere di provenienza, sbriciolando ogni tentativo di difesa del giovane con il sospetto che possa esser colpevole solo perché di Harlem.

Un principio che viene utilizzato solo come parte di un complesso ingranaggio narrativo, in cui la verità, così sottilmente cercata da tutti e altrettanto miseramente piegata alle contingenze, assume diverse forme. Monster non cede alle facili lusinghe di una retorica preconfezionata, ma si prefigge di ritrarre una storia drammatica e attuale, facendo emergere lentamente i dettagli e lavorando magnificamente sulla caratterizzazione delle anime coinvolte.

Mandler riesce a cogliere ogni sfumatura della vicenda, trasformando la passione di Steven per il cinema nel suo linguaggio, rendendo foto e video realizzati dal giovane manifestazioni della sua personalità arricchendole con la sua narrazione orale. Steven è reale, concreto, imperfetto, la sua disavventura legale è plausibile, la sua difficoltà interiore è una vicenda sporca e possibile, in cui la verità, come detto più volte, può esser interpretata da diversi punti di vista.

Merito anche di un cast impeccabile, che riesce a dare vitalità a personaggi complessi e avvincenti, che rendono pienamente giustizia a una storia drammatica e struggente, con la consapevolezza di avvolgere lo spettatore in una trama suggestiva e graffiante, in cui pregiudizi e dinamiche legali complesse si legano per dare vita a una vicenda umana tremenda, ingiusta e dalle mille facce, in cui la verità si racchiude in un’ultima, spiazzante domanda, che diventa la personale chiave di lettura dello spettatore.:

“Ragazzo, uomo, essere umano, mostro…bellissima sensazione. Voi cosa vedere quando mi guardate?”