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Moon Knight, recensione: dei e uomini in cerca di un destino

È terminata la corsa di Moon Knight su Disney Plus: Marc Spector ha cambiato il modo di intendere il Marvel Cinematic Universe?

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Avatar di Manuel Enrico

a cura di Manuel Enrico

Pubblicato il 07/05/2022 alle 18:15 - Aggiornato il 09/08/2022 alle 11:10

Era difficile immaginare all’interno del Marvel Cinematic Universe una serie come Moon Knight. Il complesso arazzo supereroico sapientemente intessuto da Kevin Feige ha sempre mantenuto un’identità che ha fatto della sua continuity serrata una colonna portante, tradizione che è stata vista come inattaccabile almeno sino al gran finale della saga dei Vendicatori. Dopo Avengers: Endgame, infatti, si era manifestata una necessità: andare oltre. Un’esigenza che non si rivolge solamente al bisogno di introdurre nuove figure in questo pantheon, ma anche di battere nuove strade sul piano narrativo, osando e proponendo agli spettatori chiavi di letture diverse del mondo supereroico marveliano. Moon Knight rientra appieno in questa volontà, collocandosi al fianco di precedenti interpretazioni del canone marveliano come WandaVision e The Falcon and The Winter Soldier in primis.

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Difficilmente un personaggio come il Pugno di Khonshu avrebbe potuto convincere gli spettatori a correre in sala con lo stesso entusiasmo con cui hanno assistito a Doctor Strange nel Multiverso della Follia. La fortuna di avere a disposizione una piattaforma come Disney+ consente ai Marvel Studios non solo di espandere la propria lore, con serie che approfondiscano retroscena ed esplorino il vissuto di personaggi che hanno minutaggio sul grande schermo, ma anche di offrire diversi approcci narrativi, di sperimentare. WandaVision ha giocato con il metaracconto sulle epoche della serialità televisiva per poi imbastire una storia sull’elaborazione del lutto e perdita (divenuta centrale nel secondo film di Strange) e The Falcon & the Winter Soldier ha sposato uno dei mantra del compianto Stan Lee (‘La Marvel è il mondo fuori dalla finestra’) per calare il racconto supereroico dell’MCU nella quotidianità sociale. Le serie seguenti sono state ulteriormente fonti di chiusure e lanci di nuovi filoni narrativi del Marvel Cineamtic Universe, ma tutte queste produzioni erano comunque fortemente calate all’interno della continuity della saga, abituando lo spettatore a sentirsi ben inserito in questa complessa architettura narrativa, basata su una serie di intrecci e rimandi che guidavano la nostra attenzione.

Moon Knight: eroi oltre la continuity

Moon Knight ha cambiato radicalmente questa consuetudine. Che sia per la scelta di un eroe secondario del panorama fumettistico della Casa delle Idee o per la scelta dichiarata di tentare una diversa strada all’interno del Marvel Cinematic Universe, la serie dedicata a Marc Spector è un segno di spaccatura. Soprattutto in termini di ritratto della personalità umana dietro la maschera, considerato come il tormentato mercenario marveliano esuli dalla tradizionale positività dell’eroe classico, ma sia stato un dei primi antieroi della Casa delle Idee, ruolo che ha sempre rivestito andando a creare una dissonanza con il roster marveliano. Questo suo tratto peculiare lo rendeva, quindi, perfetto per la Fase Quattro, bisognosa di nuove figure che si staccassero dalla precedente vita del Marvel Cinematic Universe, consentendo di esplorare nuove possibilità narrative.

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Scelta orgogliosamente rivendicata dalla produzione, che ha chiarito sin dalle prime presentazioni della serie la volontà di percorrere un nuovo approccio narrativo, più libero dall’esigenza di condividere un’ambientazione inserendo continui rimandi e offrire agli spettatori qualcosa di nuovo. Una scommessa, se vogliamo, che ha consentito a Moon Knight di affrontare aspetti di una certa rilevanza, come i disturbi mentali e il rapporto con il divino, con quest’ultimo che si rivela anche un ottimo lancio per Thor: Love and Thunder, dove la presenza di Gorr il Macellatore di Dei consentirà di approfondire questo interessante argomento. Moon Knight ha voluto quindi spingersi in nuove direzioni, forte di una verve recitativa encomiabile da parte di due attori di calibro come Oscar Isaac, impegnato nel definire le molteplici personalità del protagonista, e Ethan Hawke, volto di un villain che in diversi momenti sembra rubare la scena al main character della serie.

Le premesse erano sicuramente intriganti, portavano a pensare che avremmo goduto non più di una serie dedicata a un eroe, bensì a un anti-eroe, come ci hanno insegnato le letture dei comics Moon Knight. Ovviamente la politica Disney ha impedito ai Marvel Studios di lasciar emergere i tratti più violenti tipici del personaggio fumettistico, lasciandoli sottindere grazie all’escamotage dei blackout, risolti solo nell’ultima puntata, che si sono rivelati una delle migliori trovate della serie. L’alternanza tra le personalità di Marc Spector è stata ben gestita, con una costruzione degli episodi che ne ha mostrato quasi sempre un buon uso, nonostante la poco convincente caratterizzazione di Mister Night, l’alter ego di Steve, che ha dato l’impressione di esser stato concepito come una versione edulcorata dell’umorismo del Deadpool cinematografico. La voglia di creare un’alternanza anche sul piano ‘supereroico’ delle personalità in certi punti sembra aver perso di lucidità, nonostante la sempre impeccabile performance di Oscar Isaac, che ha trovato nei momenti di confronto con Ethan Hawke l’occasione per una grande prova attoriale. L’alchimia tra i due attori è uno dei punti di forza della serie, una profondità emotiva che raggiunge il suo culmine nel quinto episodio, dove con una struggente poesia viene mostrata la genesi della personalità frammentata di Marc Spector, che consente di decifrare le apparenti dissonanze viste nei precedenti episodi.

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Questo meccanismo di incastri di personalità, il voler spingere lo spettatore a esplorare un autentico pantheon divino con cui i personaggi si confrontano è dimostrazione di una volontà di dare nuova linfa al Marvel Cinematic Universe, cercando spunti differenti che consentano di presentare diversamente il concetto di superero. Nonostante la cura profusa in questa serie, e apprezzando i picchi emotivi presenti nella seconda metà della serie, non si può sorvolare su una sensazione di incompletezza di Moon Knight. La visione a tratti lisergica degli episodi centrali ha trasmesso bene la sensazione di precarietà dell’esistenza di Marc Spector, ma se da un lato ha potuto affidarsi alla recitazione impeccabile di Isaac, in alcuni momenti ha mostrato di esser al contempo schiava, fragilità emersa in momenti in cui la definizione caratteriale del personaggio da parte di Isaac diveniva quasi eccessiva, al limite del macchiettistico, specialmente quando in scena vedevano Steven.

Esperimento o nuova formula del MCU?

Va comunque riconosciuto a Isaac che endere la duplicità della personalità di Steven/Marc non era semplice, sotto ogni punto di vista. Oscar Isaac ha portato sulle sue spalle un peso non indifferente, dimostrandosi estremamente versatile nel dare spessore a queste due lati della personalità di Moon Knight così differenti. Una caratterizzazione che passa da uno studio di diverse movenze, con una prodezza attoriale incredibile nella gestione della mimica facciale, che passa dal gigionesco al serio con convincente linearità. Fortuna ha voluto che l’anteprima di Moon Knight fosse con l’audio in originale, occasione perfetta per apprezzare anche vocalmente l’estro artistico di Oscar Isazc, capace di muoversi con apparente semplicità da una cadenza british a una più secca parlata americana.

A visione ultimata, Moon Knight si profila come una produzione più coraggiosa nei suoi spunti che non nella sua solidità. L’avventura di Marc Spector, come si vede nel finale, è tutt’altro che conclusa, complice un finale aperto che lascia intendere come ci sia la speranza di poter vedere nuovamente Isaac nei panni del pugno di Khonshu, ma sarebbe ingiusto non evidenziare che questi sei episodi hanno lasciato emergere anche alcune fragilità. La gestione sempre delicata e rispettosa di tematiche di un certo spessore, come le patologie mentali e il rapporto con la fede e il fanatismo, sono state mutuate in una trama che ne ha anche abusato perdendo di vista il focus della storia, nella speranza di offrire un’esperienza straniante che ha visto in un utilizzo non lucido dell’umorismo una delle pecche maggiori.

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Moon Knight non essendo parte integrante della macro-continuity del Marvel Cinematic Universe ha potuto assumersi dei rischi maggiori rispetto alle serie precedenti, diventando un prezioso banco di prova per i Marvel Stuidos, che possono ritenere questo esperimento un interessante tentativo di andare oltre i vincoli della rigida cronologia del Marvel Cinematic Universe. Una libertà che consente di esplorare nuove strade, ma che richiedere di avere una visione netta e solida di un personaggio che vive di vita propria, tanto che la domanda che ci rimane a fine serie è una sola: rivedremo mai Moon Knight all’interno dei grandi eventi del MCU?

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