Rapiniamo il Duce, recensione: un film (quasi) storia

Su Netflix, arriva Rapiniamo il Duce, il nuovo film di Renato De Maria: ci avrà convinto questo film (quasi) storico?

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a cura di Elisa Erriu

I film hanno talvolta il potere (e il diritto) di rispolverare anche le trame più nere della storia dell'uomo: nel 1945, Milano bruciava davvero sotto i bombardamenti. Questa è storia vera. "Questa storia, quasi": così comincia Rapiniamo il Duce, diretto da Renato De Maria l'ultima pellicola dello stesso regista di La vita oscena, La prima linea e la serie Distretto di Polizia. Il film, uscito su Netflix, si presenta come una commedia quasi-storica, ricostruendo fatti realmente accaduti, ma filtrati sotto una luce differente, asservita alle esigenze di una narrazione più libera.

Non è un film che brilla per originalità e tanto meno vuole essere una pallida imitazione di produzioni d'oltreoceano, preferendo strizzare l'occhio a produzioni più famose, come Ocean's Twelve e Freaks Out, ma si discostandosi per la sua personalità, data in gran parte dalle atmosfere, decisamente "oscure". Proprio come gli anni che rappresentano.

Rapiniamo il Duce: il fascismo si fa film

Poteva essere fedele come un documentario, avere il brio degli action movie e quel giusto equilibrio tra avventura e pericolo che troviamo nei caper movie (conosciuti anche come heist movie): per Rapiniamo il Duce si è scelto di cercare una crasi di queste differenti suggestioni.

Lo stile di De Maria si riconosce facilmente, abituato com'è alle storie poliziesche, adrenaliniche e sopra le righe. A partire dalla trama, intuiamo che l'idea di partenza fosse proprio un film dedicato al "colpo grosso", un piano in cui un gruppo di persone si alleassero per una rapina o una truffa. Ma questo non bastava e il regista voleva inserire il tutto dentro una cornice squisitamente storica. Il tesoro di Mussolini è un dettaglio storicamente accurato:  mentre Mussolini e Claretta Petacci cercavano di fuggire in Svizzera, è stato rinvenuto un tesoro, soprannominato “L’oro di Dongo”, dal nome del comune lombardo dove fu confiscato. Il "Rapimento" è "quasi" vero.

Tuttavia, il fatto di aver scelto una storia contro il fascismo, una delle parti più tetre della storia italiana, è non solo apprezzabile, bensì anche ben eseguito. Le ambientazioni, la fotografia e il montaggio, infatti, sono ciò che più spicca durante il film: i dettagli negli sfondi, sia degli interni sia degli esterni, i colori, le sfumature, sono finezze che premiano la pellicola. Tutto il film è esageratamente "nero": vi consigliamo infatti la visione di sera, perché per gran parte del film, le scene sono tutte a luci spente e giocano tra contrasti, sussurri e azioni nell'ombra.

Anche gli attori riescano a riportarci nel passato e a farci vivere l'angoscia di chi vive in mezzo a una città che sta crollando: Isola, interpretato da Pietro Castellitto, è soltanto un ladro che cerca di sopravvivere facendo il contrabbandiere per il mercato nero. Insieme a Marcello (Tommaso Ragno) e Amedeo (Luigi Fedele), cerca di sopravvivere vendendo armi ai partigiani, ma la vita è dura, anche per coloro che non sono né eroi né vittime.

Lo sa anche la cantante e fidanzata di Isola, Yvonne, Matilda De Angelis, che non si può vivere di estremismi e bisogna sapersi adattare, o meglio, sopravvivere, quando fuori c'è la guerra. Ecco perché cerca di sfruttare a suo favore le attenzioni del gerarca fascista Borsalino (Filippo Timi), sposato con Nora Cavalieri (Isabella Ferrari), una diva ormai in declino. A complicare la vita già turbata dalle fazioni che piegano Milano, Isola scopre un messaggio contenente le coordinate sul presunto tesoro di Mussolini e decide di tentare un'impresa azzardata, ovvero rapinare il Duce, con l’aiuto di alcuni complici improbabili, tra cui Molotov (Alberto Astorri) e Giovanni Fabbri (Maccio Capatonda).

Se bruciasse la città...

Fuori da questa trama e dall'ottima esecuzione, purtroppo c'è ben poco altro. Se non siete appassionati di storia o di caper movie, Rapiniamo il Duce potrebbe annoiarvi, nonostante gli sforzi di far emergere il cinema marcatamente italiano. Perché proprio come è stato con le pellicole di Gabriele Mainetti e i Manetti Bros., l'intenzione dietro a questo film è esplicitamente questa: (ri)portare il cinema d'autore italiano in auge.

Deve, però, piacere e sperare di incontrare lo sguardo benevolo di chi sa riconoscere l'intrattenimento anche in confezioni insolite. Essendo un genere forse fino mai troppo segmentato, tra l'azione, la commedia, il cinecomics, la storia e i furti, Rapiniamo il Duce ha l'ingrato compito di portare su schermo una trama e non soltanto uno spettacolo. In alcuni momenti riesce in questo intento, soprattutto quando l'azione sovrasta i dialoghi, che risulta talvolta allungata e appesantita, non permettendo ai personaggi di emergere mai realmente. Almeno che non si canti.

In quel caso, un plauso va tutto agli arrangiamenti musicali, dalla sequenza di apertura di Massimo Ranieri, con Se bruciasse la città, fino alle cover di Paint it Black dei Rolling Stones e Amandoti di Gianna Nannini. Tre brani che spezzano le regole con cui questo film sarebbe dovuto essere stato scritto, parlando di fascismo e altre orribili storie. Invece, forse, un bel merito di questa pellicola tutto sommato né buona né male, è proprio il suo schieramento forte e chiaro:  alla fine, anche tra qualche risata in mezzo al dramma e a rocambolesche fughe, non è mai il fascismo a vincere.