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Richard Donner: l'uomo che fece volare Superman al cinema (ma non solo)

Supereroi, giovani avventurieri e sbirri dalla battuta pronta: il cinema di Richard Donner, il padre nobile dell'immaginario cinematografico degli anni '80.

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Avatar di Manuel Enrico

a cura di Manuel Enrico

Pubblicato il 06/07/2021 alle 15:00

Crederete che un uomo possa volare. Quella che nel 1978 sembrò una promessa irrealizzabile, potrebbe essere l’identità artistica di Richard Donner, che con questo slogan portò al cinema Superman, il supereroe per eccellenza. Oggi siamo abituati a vedere supertizi compiere imprese incredibili sul grande schermo, ma senza la visionaria fantasia di Donner e il volto rassicurante di Christopher Reeve tutto questo non sarebbe mai accaduto. Donner, in un certo senso, è stato il padre nobile dell’immaginario collettivo degli anni ’80, non solo per il suo Superman, un kolossal incredibile che nemmeno i deludenti seguenti hanno scalfito, ma per tutta la produzione di questo talentuoso interprete della narrazione cinematografica, capace di passare dall’horror al supereroico, per poi ribaltare offrire una nuova visione degli action movie e del fantasy, senza dimenticare i film d’avventura.

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Sembra incredibile, se ci pensiamo, che una sola mente, per quanto fantasiosa, possa essersi prestata a una tale varietà, eccellendo in tutti i suoi aspetti e lasciando un segno indelebile non solamente nell’idea di ‘fare cinema’ ma nella fantasia degli spettatori. Donner era un prescelto, il cinema era scritto nel suo destino, anche se lui, inizialmente, avrebbe voluto fare l’attore, ma in quel ruolo non era nel suo, tanto che gli venne presto consigliato di passare dietro la macchina da presa, dove invece aveva mostrato già degli sprazzi di quella genialità che lo avrebbe consacrato.

Dal piccolo schermo a Superman

Una lunga gavetta, passata dietro l’occhio della telecamera per dirigere episodio di serie televisive, tra cui cult come L’uomo da sei milioni di dollari, Kojak e Ai confini della realtà, che lo portano a tentare un primo passaggio al grande schermo nel 1961, con il deludente Il leggendario X-15, un flop che lo convince a tornare nel mondo delle serie. Una permanenza che termina nel 1976, quando Richard Donner gira Il Presagio (The Omen) un horror con protagonista Gregory Peck. La sua percezione unica degli spazi e la costruzione emotiva coinvolgente di questa storia dai toni angosciosi, basata sulla sceneggiatura di David Seltzer, lo porta finalmente alla ribalta, in un periodo in cui Hollywood sta riscrivendo la propria identità, stravolta dalla comparsa di nuovi autori e da un nuovo modo di raccontare visivamente grandi storie.

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Sono gli anni di Star Wars e Incontri ravvicinati del Terzo Tipo, è il periodo in cui Lucas e Spielberg guidano la New Hollywood verso una nuova identità. Donner non è parte di questo ristretto gruppo di cineasti, di cui fanno parte anche De Palma, Scorsese e Coppola, ma a suo modo è un elemento fondamentale dell’evoluzione del cinema del periodo. Nel momento in cui gli effetti speciali consentono di raccontare storie finora appannaggio di romanzi e fumetti, mentre la fantascienza sembra essere la nuova frontiera dell’immaginario, a Donner, un regista televisivo con solo l’apprezzato Il Presagio a testimoniarne le potenzialità, viene offerto di girare quello che è a tutti gli effetti un kolossal con protagonista un eroe in calzamaglia: Superman. Lo strabiliante Star Wars di cui tutti parlavano all’epoca aveva avuto un budget di 11 milioni di dollari, ma in Warner scommisero pesantemente su Donner, puntando su di lui 55 milioni di dollari. E Donner non delude, anzi, inconsapevolmente anticipa di dieci anni quello diventerà un genere cinematografico, il cinecomic, consacrato solo dieci anni dopo dal Batman di Tim Burton.

Donner, però, si limita a dare una versione cinematografica di Superman, lui porta il Supes dei comics al cinema. Con passione, con una visione artigianale fatta di sogni di carta che prendono vita su schermo, Donner ci mostra il volto rassicurante di Reeves che vola nei cieli di New York, ci regala attimi di pura poesia nel delicato abbraccio aereo tra Superman e Lois, o ci spinge a sorridere delle piccole manie del Luthor di Gene Hackman.

Donner coglie un aspetto essenziale di Superman: la speranza. Il kryptoniano, anche nei suoi momenti più cupi, mantiene il suo spirito ottimista, e l’America di fine anni ’70, con le sue ferite del Vietnam e degli scontri sociali, ha bisogno di credere in un domani migliore. Donner riesce a dare questa visione, privando il suo film di ogni possibile acidità, idealizzando il mondo in cui muovono Lois e Clark, senza però negare quali siano le preoccupazioni dell’americano medio, lasciando che uno strapagato Marlon Brando incarni le ansie del domani nei panni di un indimenticabile Jor-El e che il volto spigoloso di Terence Stamp sia l’incarnazione della cieca paura che vuole dominare tutto, come il generale Zod.

Una serie di aspetti umorali che Donner processa e intreccia a una storia unica, che diviene il canovaccio per l’eroe per antonomasia. Le trovate tecniche del primo volo di Superman, quella strizzata d’occhio tra Supes e lo spettatore nel finale sono dinamiche che all’epoca riscrissero il modo di fare cinema, dando vita a una pellicola che tecnicamente oggi mostra i sui quaranta e più anni, ma che ha ancora il sapore di un cinema di cuore, eroismo e artigianalità e maestria. Un cinema che ci ha dimostrato che un uomo può davvero volare.

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Ed è impossibile non notate quando del Man of Steel di Snyder sia mutuato dal Superman di Donner. Jor-El e Zod vengono basati sulle tensioni emotive delle versioni di Brando e Stamp, venendo arricchiti delle nuove angoscie del periodo, ma è nel primo volto del Kal-El di Cavill che si vede la lezione di Donner, nel modo in cui la camera indugia sui dettagli che ci preparano a un qualcosa di straordinario, di unico. Senza Donner, non solamente in riferimento a Snyder, non avremmo avuto i supereroi cinematografici, che però non hanno appreso una lezione del cineasta americano: non servono solamente gli effetti speciali, serve il cuore. Che sia quello di un krypotniano portatore di speranze o quello di un sognatore che sa come raccontare una storia.

Amicizie e amori cult

Ma il cinema di Donner non ci ha fatti solamente volare, ci ha insegnato cosa siano l’amicizia e l’amore. Se dopo i primi due Superman, girati quasi in contemporanea stabilendo nuovamente un primato per l’industria dell’entertainment,  il resto della saga non fu una produzione memorabile, Donner non sparì, ma anzi offrì la sua genialità ad altre visioni cinematografiche.

Il suo sodalizio con Spielberg portò alla realizzazione di un altro cult, I Goonies. Chi è vissuto negli anni ’80 è cresciuto con questa storia di pura amicizia e voglia di avventura, vagamente nostalgica, che Donner ha saputo ritrarre con una vena artistica eccellente, dirigendo una banda di piccoli attori a cui il regista si legò profondamente durante le riprese, ammettendo però che lavorare con loro, considerata l’età, fu stancante e la conferma del perché non si volle mai sposare e aver figli. Nonostante la fatica, comunque, Donner realizza un ritratto dell’avventura, con una padronanza della camera perfetta, mai un tempo sbagliato o una scena che non ti mozzi il fiato. Che sia l’interrogatorio più paradossale della storia del cinema o la scoperta di un galeone misterioso. E ancora una volta, un piccolo inside joke ci ricorda che ci dirige sa cosa sia la speranza, sa cogliere quale sia il vero eroismo, con un richiamo al suo Supes, divenuto Supersloth.

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Nello stesso anno dei Goonies, Donner invade il cinema con un fantasy, in un’epoca in cui questo genere era ancora poco vissuto dalla cerchia dei nerd letterari e veniva cinematograficamente identificato con l’Excalibur di Boorman (1981). Donner abbandona il tono epico per raccontare una storia più avventurosa, affidandosi nuovamente a un attore di grande talento, Rutger Hauer (il Roy Batty di Blade Runner), e alla bellezza di una giovane attrice, Michelle Pfeiffer, per consegnarci una storia di amore puro, maledizioni e avventura. Con Ladyhawke, Donner nuovamente si dimostra interprete raffinato, capace di valorizzare un patrimonio naturale come quello italiano per creare un’illusione di realismo, inserendolo in una storia avvincente e romantica.

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Ma ancora una voltaDonner si presta a un altro genere, contribuendo, in un certo senso, a sancirne gli assiomi. Nel periodo d’oro degli action heroes muscolari e ipertrofici, Donner segue un’altra strada, giocando mirabilmente sul concetto della strana coppia con Arma Letale (1987) . Mel Gibson e Danny Glover diventano il modello dei successivi buddy movie, un duo fatto di complicità e scherzi, ma capaci di condividere anche il dolore della vita e sopravvivere a grandi avventure. Donner, specialmente nei primi due capitoli della fortunata saga, ha il pregio di trovare un’identità unica, capace di esaltare le follie di Riggs ma anche di cogliere le sfumature più disperate e autentiche di un’America afflitti dagli incubi della decade precedente, mostrandone le conseguenze più logoranti. Il tutto, con una delicata ironia, creando negli spettatori un nuovo modo di intendere il poliziesco che avrebbe trovato negli anni seguenti nuove declinazioni, ma difficilmente all’altezza della coppia di sbirri di Los Angeles.

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L'eredità di Richard Donner

La scomparsa di Richard Donner è stata particolarmente sentita, da più di una generazione. I suoi film, anche il datato Superman, posso risultare fuori tempo dalle nuove leve di spettatori, ma nemmeno loro possono negare la forte impronta emotiva del regista, un’empatia che ha consegnato queste pellicole alla storia non solo del cinema, ma anche di chi ha gioito e sofferto con gli eroi di Donner. La produzione di Richard Donner, così varia e mai scontata, è stata la base dell’immaginario degli anni ’80, ha gettato le basi del cinema successivo, sia emotivamente che stilisticamente, grazie a una delicatezza narrativa e una chiara visione della scena che ci rapito nei mondi del regista.

“Se avevi l'opportunità e un po' di talento, il successo era assicurato.” (Richard Donner)

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