Sherlock, un classico reinventato ad arte

La rivisitazione in chiave moderna del mitico personaggio di Doyle è un prodotto tecnicamente meraviglioso, una scrittura intelligente che impegna attori fantastici. Il suo unico problema è la presunzione, pari a quella del protagonista.

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a cura di Andrea Balena

Non credo occorra presentare Sherlock Holmes, forse il personaggio letterario inglese più famoso della storia. Nato dalla penna di Arthur Conan Doyle nell'800, il detective col cappello ha sempre rinnovato la sua fortuna nei nuovi media, grazie alla formula crime e mistery che si sposa perfettamente con i ritmi televisivi e cinematografici. Le soluzioni logiche, il portamento dinoccolato, il fido assistente John Watson e l'appartamento a Baker Street sono divenuti topoi fissi.

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Eppure prima del 2010 nessuno si era spinto a trasferirlo nella Londra contemporanea, perché nonostante il suo indubbio fascino, adattare il personaggio vittoriano a un contesto moderno è, o forse dovremmo dire era, quasi impossibile. Poi è arrivato Steven Moffat, uno sceneggiatore molto noto nell'ambiente televisivo britannico come showrunner della versione moderna di Doctor Who, che ha deciso di affrontare la balena bianca. E il risultato è stato meraviglioso: lanciato con il solo titolo di Sherlock e con alle spalle una produzione gigantesca persino per gli standard BBC, lo show è rapidamente diventato un must watch degli appassionati di serie televisive.

In questa versione il personaggio non indossa (quasi) mai il suo cappello e non è un gentiluomo cortese, ma il suo esatto contrario: un sociopatico tossicodipendente (interpretato da Benedict Cumberbatch) la cui estrema intelligenza lo rende scontroso e arrogante verso chiunque. Nel primo episodio facciamo la sua conoscenza attraverso il punto di vista del Dr. Watson (Martin Freeman), in questa versione un medico militare reduce dell'Afghanistan con problemi a reintegrarsi nella società. I due sono completamente agli antipodi, ma nonostante le incomprensioni iniziali si crea subito un forte legame, anche grazie all'impegno sul campo come consulenti di Scotland Yard nei casi apparentemente insolvibili.

I media inglesi non si fanno problemi nel proporre show dalla struttura insolita, e Sherlock ne è il caso emblematico: ogni stagione è formata da soli tre episodi, ma la durata superiore ai 90 minuti li rende a conti fatti dei lungometraggi. Questo esteso minutaggio permette alla sceneggiatura di intrecciare in un'unica puntata più sottotrame, che spesso si vanno a ricollegare a un grande mistero finale.

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La qualità della scrittura è impeccabile, marchio dello sceneggiatore britannico e del suo team, in particolare Mark Gatiss, che nella serie partecipa anche come interprete di Mycroft Holmes. Lo Sherlock contemporaneo è un fiume di battute intense, intelligenti e sagaci, sia negli sproloqui sia negli scambi verbali con la sua spalla, la quale in molti casi si dimostra la voce della sua coscienza.

Grazie alle impressionanti prove di recitazione, i due protagonisti prendono letteralmente vita: la riscrittura moderna ha donato loro non solo backstory intriganti e ben scritte, ma ha anche permesso una caratterizzazione tridimensionale, ben lontana dalla piattezza di altre riduzioni sul piccolo e grande schermo. Sherlock e John si divertono, lavorano arduamente, si disperano e condividono emozioni molto forti. Sono persone in carne ed ossa. Il legame che si crea tra loro va ben oltre il rispetto reciproco descritto nei romanzi di Doyle, ed è un rapporto intenso che si evolve costantemente nel corso delle quattro stagioni. A volte la sceneggiatura arriva a scherzare sul loro cameratismo, scambiato da alcuni personaggi per una relazione omosessuale.

I racconti originali forniscono una importante base di partenza da cui attingere, e ogni storia diventa un giro sulle montagne russe fatte di investigazioni, cacce all'uomo ed azione. Persino i villain, sebbene non graziati da una caratterizzazione altrettanto profonda, sono ben rappresentati, a partire dalla versione più inquietante mai apparsa sullo schermo di James Moriarty, qui interpretato dall'insospettabile e istrionico Andrew Scott.

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L'occhio dello spettatore trova godimento nella regia dello show, specialmente quando si attiva l'abilità deduttiva del protagonista. Lo schermo si riempie di cascate di scritte, immagini e connessioni logiche, nate dal cervello di Sherlock e guidate dalla sua particolare tecnica mnemonica. Lo spettacolo visivo soddisferà tutti gli appassionati, con movimenti di macchina chiari e ben studiati e allo stesso tempo pieni di riferimenti da cogliere per la trama orizzontale.

Tutto oro quello che luccica? A voler essere pignoli, forse non tutto. Pur non volendo fare spoiler, nel finale della seconda stagione assistiamo ad un evento che ha diviso il fandom, e da quel momento la storia prende una piega abbastanza discutibile. La qualità della scrittura rimane immutata, ma si ha l'impressione che lo show tiri eccessivamente la corda della sospensione dell'incredulità (elemento tra l'altro inventato proprio dagli inglesi). In più di un'occasione lo spettatore attento prova l'amaro in bocca assistendo a situazioni eccessivamente caricate, che sono poi risolte in maniera quasi forzata. Forse lo si potrebbe definire un atto di presunzione da parte dello sceneggiatore nel trattare la sua stessa opera, ma in assenza di notizie sul rinnovo della serie, il finale della quarta stagione deve bastarci per tirare qualche conclusione.

Nonostante alcune incertezze, Sherlock è una produzione con i fiocchi, un vero simbolo della british difference nel settore seriale, che è stato capace in appena 13 puntate (incluso lo speciale di Natale La sposa abominevole) di diventare una serie di culto globale. Potete trovare tutte le stagioni su Netflix, e guai a voi a non sentirla in lingua originale!