Star Trek Discovery: recensione della terza stagione

La terza stagione di Star Trek: Discovery, appena conclusasi su Netflix, vede l'equipaggio della U.S.S. Discovery deve trovare il proprio posto 900 anni nel futuro.

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a cura di Manuel Enrico

Una serie di Star Trek è sempre un segno positivo. Vuol dire che l’interesse per il franchise, che veleggia verso i sessant’anni di onorata carriera, è ancora alto, come dimostrano le recenti Picard e l’annunciata Star Trek: Strange New Worlds. A contribuire a questo continua esplorazione dell’ultima frontiera tra le stelle contribuisce anche Star Trek: Discovery, che ha concluso in questi giorni la sua terza stagione su Netflix. La serie con protagonista Michael Burnham (Soneeqa Martin-Green) è stata, in un certo senso, parte integrante della rinascita televisiva di Star Trek, dopo la brusca conclusione di Star Trek: Enterprise. Per anni i trekkie hanno atteso un ritorno della creatura di Gene Roddenberry nell’ambito seriale, e la U.S.S. Discovery avrebbe dovuto essere la nuova astronave che ci avrebbe condotti dove nessun è mai giunto prima.

Va riconosciuto agli showrunner di avere avuto coraggio a toccare un’ambientazione come quella di Star Trek. La continuity della saga di Roddenberry consente di poter inserire nuove storie all’interno di una cronologia già parzialmente definito, come dimostrato da Star Trek: Discovery. Nelle prime due stagioni, infatti, veniamo riportati ai primi giorni della Federazione, antecedenti alle avventura di Kirk e della prima Enterprise.

Star Trek: Discovery, un nuovo mondo di raccontare Star Trek

Non sono mancate polemiche da parte dei fan che non hanno gradito le nuove versioni di elementi tipici della saga, dalla fisionomia dei Klingon all’aspetto ipertecnologico delle navi della Federazione, se paragonate alle semplici plance di navi teoricamente successive, ma che abbiamo conosciuto tramite la visione (e le tecniche) del mondo televisivo degli anni ’60. Nonostante queste critiche, in parte superficiali, Star Trek: Discovery ha cercato di mantenere un certo rispetto del contesto narrativo della saga, attingendo a elementi noti ai fan, e provando a spingersi in altre direzioni. Intento lodevole e, bisogna riconoscere, in gran parte riuscito. Uno sforzo che si è concretizzato maggiormente nella terza stagione, che ha visto la Discovery e il suo equipaggio affrontare una sfida incredibile: costruirsi una nuova vita 900 anni nel futuro.

Al termine della seconda stagione, infatti, la U.S.S. Discovery e la Burnham sceglievano di sacrificarsi e compiere un salto nel buio temporale. Il loro viaggio si conclude 900 anni nel futuro, portandoli in una galassia completamente diversa. In seguito a un misterioso evento noto come il Grande Fuoco, la tecnologia di curvatura è diventata inutilizzabile: tutto il dilitio presente nella galassia è divenuto instabile, impedendone l’utilizzo. Il culmine di questo evento è stato la distruzione quasi istantanea delle astronavi che viaggiavano a curvatura, una perdita che ha compromesso una delle forze principali: la Federazione Unita dei Pianeti.

Come scoprono presto i viaggiatori del tempo, la Federazione, e la Flotta Stellare, non sono riusciti a mantenere i collegamenti con le parti più remote dello spazio. Questo ha causato l’abbandono di membri storici della Federazione, come Thrill, Andoriani e Vulcaniani, consentendo la nascita di altri centri potere, come la Catena Smeraldo, un’organizzazione spietata e oppressiva guidata dagli Oroniani.

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L’arrivo di Burnham e della Discovery, l’unica astronave capace di coprire istantaneamente grandi distanze grazie al suo motore a spore, sbilanciano nuovamente questi equilibri futuri. Ma come dimostrato in precedenza, il vero motore della storia è nuovamente il carattere impulsivo e caparbio della Burnham, che non intende arrendersi agli ordini dei vertici della Flotta e decide di scoprire quale sia stata la vera causa del Grande Fuoco. La sua convinzione è che scoprendo la verità dietro questa tragedia si possa rimediare e ricostruire la Federazione.

L’intenzione di spostare il fulcro narrativo della serie in un futuro remoto rispetto agli eventi delle precedenti stagioni è stata un’intuizione felice. Giocare sul filo della continuity tra Star Trek: Enterprise e la serie classica non era facile, come potrebbe dimostrare il futuro Star Trek: Strange New Worlds, mentre l’avventurarsi in un territorio inesplorato avrebbe consentito una maggior libertà narrativa. I riferimenti alla cronologia degli eventi di Star Trek non viene abbandonata, come dimostrano i riferimenti a eventi quali la Guerra Fredda Temporale, ma consente agli sceneggiatori una maggior libertà creativa.

L’aspettativa, quindi, era di vedere una serie che rispecchiasse lo spirito originale di Star Trek, quel mix di coraggiosa esplorazione e avventura che aveva reso celebre la saga. Considerata la situazione politica del futuro, si sarebbe potuto privilegiare un contesto narrativo che portasse in modo più avvincente alla nascita di una ‘nuova’ Federazione, riagganciandosi alla narrazione corale che ha contraddistinto le serie di Star Trek.

Star Trek: Discovery, una serie priva di coralità

Peccato che gli sceneggiatori non abbiamo approfittato di questa occasione per abbandonare la loro impostazione narrativa troppo focalizzata su Burnham. In ogni serie c’è sempre un personaggio di punta, sovente il capitano o l’ufficiale comandante, ma non si è mai perso la natura corale dell’anima di Star Trek. Con Discovery, invece, il ruolo di Burnham tende a essere soverchiante, sbilanciando gli equilibri dello show, in un modo che costringe gli sceneggiatori a introdurre spesso delle forzature nelle trame che penalizzano pesantemente altri personaggi.

In questa terza stagione di Star Trek: Discovery assistiamo a uno dei peggiori addii a un personaggio fondamentale: l’Imperatrice Georgiou. La Philippa dell’Universo dello Specchio viene liquidata in due episodi in cui viene utilizzato il Guardiano del Tempo, comparso per la prima volta in uno dei più romantici e strazianti episodi della serie classica, Uccidere per amore (The City on the Edge of Forever). Il ruolo della Georgiou avrebbe meritato maggior spessore, una più conclusione più curata.

Stessa mancanza di profondità viene riservata alla villain della stagione, Osyraa. Vedere una donna orioniana rivestire un ruolo di potere, dopo che per gran parte della storia di Star Trek il ruolo della donna nella società era di sottomissione (tranne che nei romanzi non canonici di Rise of the Federation), sarebbe stato il punto di partenza ideale per approfondire questo incredibile cambiamento. Invece, Osyraa è una figura astiosa, da odiare perché si contrappone ai buoni, senza darle il giusto spessore, senza dare un contesto alle sue azioni. Una costruzione diafana di un personaggio che si cerca di delineare sbrigativamente nelle ultime puntate, ma senza riuscire a togliere la sensazione che si sia sprecato un ottimo villain.

Un difetto di cui soffre tutta la terza stagione di Star Trek: Discovery. Dopo i primi episodi, che segnavano una lenta partenza, sembrava che il ritmo della serie potesse decollare con Unificazione III, episodio in cui si assiste a un confronto dialettico tra la Burnham e la nuova società romulo-vulcaniana, in cui gli ideali della Federazione vengono sviscerati e valorizzati. Ma è un’illusione, gli episodi successivi si concentrano nuovamente sulla Burnham, costringendo gli sceneggiatori a forzatura di trama (come la provvidenziale comparsa della madre di Burnham) e a utilizzare i riferimenti alle precedenti serie e ad aspetti del mito di Star Trek più come strizzatina d’occhio ai trekkie che non come costruzione di una continuity serrata.

Su tutto, il modo sbrigativo e paradossale con cui viene spiegato il Grande Fuoco, troppo basato sull’emotività soverchiante imposta alla narrazione della serie rispetto alla gestibilità dell’aspetto scientifico tipico di Star Trek. Un vizio che colpisce anche il grande difetto della serie, il motore a spore, che sul finale di stagione scopriamo poter esser utilizzato un po’ da chiunque, a seconda delle esigenze degli sceneggiatori.

Star Trek: Discovery, un'occasione persa?

La sensazione, giunti alla fine della terza stagione di Star Trek: Discovery, è che sia sfumata una grande occasione. Gli ottimi presupposti e le premesse inscenate nei primi episodi avrebbero meritato maggior definizione, una costruzione narrativa che li sviluppasse con maggior attenzione e che coinvolgesse un maggior numero di protagonisti anziché fossilizzarsi su una narrazione Burnahm-centrica.

Se in una serie come Picard la figura centrale dello storico capitano di The Next Generation può avere ragione d’essere il fulcro della trama della serie, in Star Trek: Discovery questo ruolo preminente della Burnham diventa spesso un ostacolo allo sviluppo di una narrazione più completa, più varia. Perché non affrontare il senso di distacco dell’equipaggio, catapultato 900 anni lontano dai propri cari, e limitarsi a qualche sporadica battuta? L’inserimento di nuovi personaggi, come Adira, si rivela un espediente per restringere ulteriormente la potenziale rosa di personaggi di cui approfondire le emozioni.

Ed è un peccato, perché visivamente Star Trek: Discovery è una delle serie tecnicamente più appaganti. La tecnologia futura viene realizzata in modo da offrire un contrasto marcato con la retrograda Discovery, dando vita a delle nuove dinamiche narrative, come il teletrasporto istantaneo, che si rivelano funzionali e ben gestite.

Star Trek: Discovery, dopo due buone stagioni, con la sua terza serie mostra debolezze che la allontanano, narrativamente parlando, dal canone trekkiano. Un eccesso di retorica nell’abusata emotività di Burnham, la mancanza di una vera coralità all’interno della storia e la sensazione che alcuni passaggi siano stati concepiti rapidamente, più per obbligo che per linearità di trama, consegnano agli spettatori una serie poco appassionante e piagata da un’assenza di colpi di scena credibili. A poco servono i richiami e i sentiti omaggi al mito di Star Trek (compreso i ricordi di Aaron Eisenberg e Anton Yelchin), o la chiusura di stagione accompagnata dalla sigla della serie originale e da una citazione a Gene Roddenberry, la trama di questi tredici episodi ha sprecato l’occasione di mostraci veramente una galassia da esplorare, non riuscendo a portarci dove nessuno è mai giunto prima.

Potete seguire le avventure dell'eequipaggio della U.S.S. Discovery sottoscrivendo un abbonamento a Netflix