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Oracle e Nvidia accusate di aiutare la Cina ad aggirare le sanzioni USA

Oracle e Nvidia accusate di collaborare con Bbytedance e altre aziende per fornire accesso a componenti avanzati alla Cina nel territorio USA.

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Avatar di Marco Silvestri

a cura di Marco Silvestri

Editor

Pubblicato il 07/06/2024 alle 16:30

Come ben sappiamo, già da un po' di tempo gli USA hanno imposto delle restrizioni alle aziende cinesi, attualmente impossibilitate ad ottenere chip IA di ultima generazione. Tuttavia, queste aziende hanno trovato un modo per accedere all'hardware sanzionato sul suolo americano, evitando di sollevare sospetti e aggirando di fatto le sanzioni USA.

Secondo quanto riportato dal The Register, Alibaba e Tencent hanno stipulato un accordo con Nvidia per ottenere chip soggetti a restrizioni per l'uso nei datacenter che queste aziende gestirebbero sul territorio Statunitense. Inoltre, sembra che anche China Telecom abbia avviato trattative con fornitori cloud per accedere a hardware IA ad alte prestazioni.

In sostanza, pare che Alibaba, Tencent e China Telecom vogliano noleggiare o acquistare hardware americano da utilizzare all'interno degli USA, in modo da non violare apertamente le sanzioni di Washington.

Anche ByteDance, la società madre di TikTok, è coinvolta in questa operazione e ha portato il suo partner infrastrutturale negli Stati Uniti, Oracle, nel mix. Secondo alcune fonti, ByteDance avrebbe noleggiato l'accesso ad alcuni dei migliori chip di Nvidia proprio da Oracle.

Queste informazioni provengono da persone informate sui fatti che hanno parlato con The Information, la testata che ha diffuso la notizia. Per ora solo Nvidia ha risposto alle accuse dichiarando quanto segue:

"Supportiamo nuovi datacenter AI negli USA, migliorando l'ecosistema informatico e creando posti di lavoro. Tutti i clienti dei datacenter statunitensi devono rispettare le leggi applicabili, incluse le restrizioni all'esportazione e contro l'uso improprio."

Un po' di contesto

Gli Stati Uniti sono impegnati da alcuni anni in una "guerra dei chip", portata avanti a suon di sanzioni mirate a impedire che progetti di chip e hardware avanzati arrivino in Cina. Tuttavia, imporre sanzioni non ne garantisce il rispetto. Ad esempio, aziende come Huawei sono state scoperte a sfruttare scappatoie nelle sanzioni per ottenere progetti di chip avanzati e attrezzature di produzione avanzate hanno comunque superato alcune restrizioni.

Gli Stati Uniti mirano ad ottenere il primato mondiale nella progettazione e nella produzione di chip, motivo per cui un concorrente potente e pieno di risorse come la Cina rappresenta una seria minaccia ai piani di espansione USA. Combinando sanzioni e politiche di sviluppo, si prevede che gli Stati Uniti raggiungeranno una quota del 28% dei semiconduttori più avanzati del mondo entro il 2032, rispetto al 2% della Cina. Anche se le sanzioni non sono completamente a tenuta stagna, limiteranno comunque significativamente l'accesso di Pechino a tali tecnologie.

Ovviamente la Cina sa benissimo che la gran parte dei settori industriali e produttivi, in futuro (ma anche nel presente) saranno trainato dall'IA, settore nel quale i chip avanzati risultano fondamentali. Anche se la Cina riuscisse ad autoprodurre processori "made in China" non avrebbe comunque i mezzi per utilizzare nodi produttivi avanzati come quelli nelle mani di TSMC, ad esempio, quindi rimarrebbe esclusa da diversi settori produttivi importanti. Ciononostante, aziende come Huawei stanno cercando metodi alternativi per produrre processori avanzati sul territorio cinese, anche se per ora il rapporto costi benefici è piuttosto sbilanciato.

Tutto questo ha portato la Cina ad escogitare nuove e più ingegnose misure per eludere le sanzioni, come semplicemente trasferire l'uso dei chip avanzati negli Stati Uniti. Ciò che non è ancora chiaro è se le aziende cinesi coinvolte in questa elusione delle sanzioni stiano effettivamente violando la legge, o se abbiano semplicemente trovato un'altra astuta scappatoia che costringerà gli USA a emanare nuove sanzioni.

Fonte dell'articolo: www.theregister.com

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