Nel cuore della Rift Valley keniana, lungo le antiche sponde del Bacino di Turkana, i nostri antenati hanno tramandato per quasi trecentomila anni una tradizione tecnologica che ha attraversato indenne alcuni dei più drammatici sconvolgimenti climatici della storia terrestre. Una ricerca internazionale appena pubblicata su Nature Communications porta alla luce prove straordinarie di questa continuità culturale, documentando come gli ominidi primitivi abbiano perfezionato e preservato l'arte della scheggiatura della pietra tra 2,75 e 2,44 milioni di anni fa, proprio mentre il pianeta oscillava tra periodi di siccità estrema, incendi devastanti e mutamenti ambientali radicali.
Il sito archeologico di Namorotukunan si rivela un archivio unico della tecnologia olduvaiana, la più antica industria litica conosciuta, caratterizzata dalla produzione di strumenti versatili ottenuti mediante la percussione di ciottoli. Gli strumenti rinvenuti mostrano una standardizzazione sorprendente: schegge affilate, percussori e chopper che rappresentano i primi "coltellini svizzeri" multiuso della preistoria. David R. Braun, professore di antropologia presso la George Washington University e affiliato al Max Planck Institute, sottolinea come il sito riveli "una storia straordinaria di continuità culturale". Quello che emerge dalle analisi non è un'innovazione isolata, ma una tradizione tecnologica consolidata, tramandata attraverso innumerevoli generazioni di artigiani della pietra.
La metodologia utilizzata dal team internazionale combina tecniche d'avanguardia per ricostruire con precisione millimetrica la cronologia del sito e il contesto ambientale in cui operavano questi antichi fabbricanti di utensili. La datazione radiometrica delle ceneri vulcaniche stratificate ha fornito punti di riferimento temporali assoluti, mentre l'analisi delle inversioni magnetiche preservate nei sedimenti ha permesso di correlarne la sequenza stratigrafica con la scala temporale globale. Le analisi geochimiche delle rocce e lo studio dei fitoliti, microscopiche strutture silicee che si formano nei tessuti vegetali e si conservano nei sedimenti, hanno rivelato drammatiche transizioni ecologiche: da ambienti umidi e paludosi caratterizzati da vegetazione lussureggiante, il paesaggio si è trasformato progressivamente in praterie aride battute da incendi ricorrenti e ambienti semi-desertici.
Rahab N. Kinyanjui, ricercatrice presso i National Museums of Kenya e il Max Planck Institute, evidenzia come il registro fossile vegetale racconti una storia incredibile: mentre la vegetazione cambiava radicalmente, la produzione di utensili rimaneva costante. Questa resilienza tecnologica assume particolare rilievo quando si considera l'instabilità climatica del Pliocene superiore, periodo caratterizzato da oscillazioni pronunciate nelle temperature globali e nei regimi delle precipitazioni. Gli ominidi di Namorotukunan non solo sopravvissero a questi cambiamenti, ma mantennero una tradizione manifatturiera coerente, trasmettendo conoscenze e competenze attraverso centinaia di migliaia di anni.
Le implicazioni evolutive di questa scoperta sono profonde. Come sottolinea Susana Carvalho, direttrice scientifica del Parco Nazionale di Gorongosa in Mozambico e autrice senior dello studio, i risultati suggeriscono che l'uso di strumenti potrebbe essere stato un adattamento più generalizzato tra i nostri antenati primati. Niguss Baraki della George Washington University nota che già 2,75 milioni di anni fa gli ominidi erano abili nel produrre utensili affilati in pietra, il che implica che l'origine della tecnologia olduvaiana potrebbe essere ancora più antica di quanto finora ipotizzato. Le evidenze suggeriscono che l'abilità tecnica non fosse prerogativa di una singola specie, ma un tratto condiviso da diverse linee evolutive che coesistevano nel bacino.
L'analisi delle superfici ossee rinvenute nel sito fornisce prove dirette dell'uso di questi strumenti. Frances Forrest della Fairfield University riferisce che segni di macellazione collegano inequivocabilmente gli utensili litici al consumo di carne, documentando un'espansione della dieta che si è mantenuta costante attraverso i cambiamenti del paesaggio. Questa diversificazione alimentare rappresentò probabilmente un vantaggio evolutivo cruciale: l'accesso a fonti proteiche animali tramite la macellazione di carcasse permise di affrontare periodi di scarsità vegetale, trasformando lo stress ambientale in opportunità adattativa. La capacità di produrre strumenti affidabili e versatili divenne così un'assicurazione contro l'imprevedibilità climatica.
Il progetto di ricerca è frutto della collaborazione di un consorzio internazionale che include archeologi, geologi e paleoantropologi provenienti da Kenya, Etiopia, Stati Uniti, Brasile, Germania, India, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Spagna, Sudafrica e Regno Unito. Gli scavi sono stati condotti sotto la supervisione dei National Museums of Kenya e con il supporto delle comunità locali Daasanach e Ileret, secondo le autorizzazioni rilasciate dal Ministero dell'Educazione, Scienza e Tecnologia del Kenya. I finanziamenti provengono dalla National Science Foundation statunitense, dalla Leakey Foundation, dal Palaeontological Scientific Trust, dal Dutch Research Council, dalla Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado de São Paulo, dall'American Museum of Natural History e dall'autorità nazionale rumena per la ricerca scientifica.
Dan V. Palcu Rolier, autore corrispondente e ricercatore senior presso GeoEcoMar, l'Università di Utrecht e l'Università di San Paolo, sintetizza efficacemente il significato della scoperta: Namorotukunan offre una finestra rara su un mondo in trasformazione ormai scomparso, dove fiumi modificavano il loro corso, incendi devastavano la vegetazione e l'aridità avanzava inesorabile, ma gli strumenti rimanevano immutabili. Questa persistenza tecnologica potrebbe rivelare le radici di una delle nostre caratteristiche più distintive come specie: la tendenza a fare affidamento sulla tecnologia per stabilizzare la nostra esistenza di fronte al cambiamento.
Le prospettive future della ricerca nel Bacino di Turkana sono promettenti. L'identificazione di siti con sequenze stratigrafiche così lunghe e ben conservate apre la possibilità di studiare l'evoluzione delle tecniche di scheggiatura su scale temporali precedentemente inaccessibili. Resta da chiarire quali specie di ominidi fossero responsabili della produzione di questi strumenti: candidati plausibili includono Australopithecus garhi, forme primitive di Homo habilis o parenti ancora da identificare. Ulteriori indagini paleontologiche potrebbero fornire resti fossili direttamente associati agli orizzonti archeologici, permettendo di collegare definitivamente specifiche linee evolutive alle tradizioni tecnologiche documentate. Il confronto sistematico con altri siti olduvaiani dell'Africa orientale, come Gona in Etiopia e Olduvai in Tanzania, consentirà inoltre di verificare se la continuità culturale osservata a Namorotukunan rappresenti un fenomeno localizzato o una caratteristica più generale della prima tecnologia umana, con importanti implicazioni per la nostra comprensione delle capacità cognitive e delle strutture sociali dei nostri lontani antenati.