Apple è campione nella difesa dei diritti umani. È un'azienda con principi e valori. E paga le tasse dovute, ogni singolo dollaro. È con queste parole che ieri Tim Cook ha difeso Apple davanti al Congresso dalle accuse di elusione fiscale per 74 miliardi di dollari.
"Non solo ci atteniamo alla legge, ma ne rispettiamo lo spirito. Non usiamo espedienti fiscali e non accumuliamo soldi nelle isole dei Caraibi". Le divisioni create, spiega Cook, sono solo un modo efficiente per gestire le risorse e non sono architettate per evitare le tasse.
Tim Cook al senato
Dichiarazioni su cui si può discutere all'infinito, ma resta il fatto che non c'è una violazione delle leggi e quindi l'unico strumento per controbattere a Cook è una mediazione sulle normative fiscali. Il senatore John McCain ha infatti riconosciuto che la strategia di Apple riflette un sistema fiscale "imperfetto". Come da copione Cook si è detto concorde sull'esigenza di riformare il sistema fiscale prevedendo imposte più basse sul reddito aziendale e una tassa ragionevole sui guadagni esteri.
In altre parole, l'AD non intende riportare i capitali in patria finché il tasso di imposta sarà del 35 percento. "Non sto proponendo un tasso pari a zero, ma chiedo una percentuale ragionevole per riportare indietro i soldi."
Il paradiso fiscale non esiste?
Come noto il dito è puntato sulla controllata irlandese Apple Operations International e sulla tassazione massima del 2% concordata con lo Stato Europeo. Per questo è sceso in campo anche vicepremier irlandese Eamon Gilmore: l'Irlanda ha un regime fiscale in regola, le colpe sono da attribuire a quei Paesi che presentano delle lacune legislative che consentono alle multinazionali di ricorrere a complesse strategie per eludere le tasse. Che sia la volta buona che cambi qualcosa?