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a cura di Michele Pintaudi

Editor

Il mondo dei videogiochi, come ormai tutti sappiamo, è bello perché vario e sfaccettato. Se ne può infatti parlare sotto diversi termini: dall’analisi qualitativa alla predilezione per un genere piuttosto che per un altro, ma anche discutendo su quelle che sono alcune particolari sfumature di quella che è, a tutti gli effetti, una delle industrie più importanti nel mercato dell’intrattenimento.

Industria che, ogni anno, arriva a produrre un quantitativo di prodotti sempre più incredibile. Fattori come lo sviluppo del digital delivery e un accesso sostanzialmente semplificato a tecnologie di un certo tipo, soprattutto nell’ultimo decennio, portano infatti alla possibilità di creare e distribuire videogiochi in maniera relativamente semplice. Ciò porta poi a moltissime implicazioni che, positive o negative che siano, stanno rivoluzionando l’intero settore videoludico.

Quello della produzione di massa è un discorso che porta diretto a un termine noto a molti ma non a tutti, sul quale spesso è necessario fare chiarezza: “abandonware”. Riprendendo la definizione riportata dall’Enciclopedia Treccani, possiamo definire un abandonware in questo modo:

"Software rilasciato da oltre cinque anni che non è più commercializzato o in uso corrente in quanto divenuto obsoleto, sebbene ancora protetto dai diritti d’autore; conserva un interesse storico o individuale e riguarda in particolare i videogiochi."

Il fenomeno generato da questo particolare tipo di software è uno dei più chiacchierati nel mondo dei videogiochi, con centinaia e centinaia di community ad affrontare l’argomento e spesso a scontrarsi su questioni legate appunto al diritto d’autore. È legittimo, insomma, attingere da questi titoli in maniera gratuita alla luce del loro interesse prettamente storico? Quel che vogliamo fare oggi non è tanto rispondere a questa domanda, che lasciamo alla vostra libera opinione, quanto piuttosto scavare a fondo in quello che è divenuto con gli anni un vero e proprio movimento subculturale.

Abandonware: le false credenze e il continuo dibattito

Qual è l’esatto momento in cui un gioco può considerarsi abandonware? I casi sono molteplici, e nella maggior parte di essi troviamo riscontro nella cessazione della commercializzazione dello stesso. Ciò può avvenire perché il gioco non ha più mercato, ma anche a causa del fallimento dell’azienda addetta a produzione e/o distribuzione. Questo, come specificato nella definizione, non indica però l’assenza del diritto d’autore.

Troviamo qui infatti una prima questione spesso fraintesa: si tende infatti a ritenere l’abandonware un prodotto che, in quanto ormai fuori mercato, non è più sotto il controllo di nessuno. Questa, va detto, è un’eventualità: nella maggior parte dei casi però il copyright rimane di proprietà di determinati soggetti, magari di coloro che hanno rilevato determinate quote della società correlata.

Nel momento in cui si effettua il download di una di queste applicazioni è dunque necessario accertarsi della situazione legata al diritto d’autore: se esso permane e l’utente decide comunque di scaricare gratuitamente il software, egli sta di fatto commettendo reato di pirateria. Il tutto è scongiurato nel caso in cui, come sempre più spesso avviene di recente, è il produttore stesso a decidere di diffondere in via del tutto gratuita il gioco.

Una folta schiera di utenti, pur consapevole delle possibili implicazioni legali, è e resta ferma su una posizione ben precisa. Emerge infatti il tema della conservazione storica, e il dibattito è sempre acceso e quantomai divisivo. È indubbio quanto moltissime opere – soprattutto se decidiamo di tornare a cavallo degli anni Ottanta/Novanta – abbiano scritto pagine fondamentali in quella che è la storia del medium videoludico, ragion per cui devono assolutamente essere conosciute dal grande pubblico anche soltanto per una questione culturale. In alcuni casi però questi titoli non risultano disponibili attraverso i canali ufficiali, e spesso i modi per poterli (ri)vivere in quanto esperienze sono due:

  • Acquistare il gioco nel suo supporto originale, soluzione che potrebbe però risultare enormemente dispendiosa;
  • Ricorrere a vie alternative, optando però per la pirateria.

È dunque facilmente comprensibile come spesso il semplice atto della riscoperta possa divenire un’operazione tortuosa, che va a coinvolgere anche la sfera etica: è giusto “rubare” un gioco, se si tratta dell’unico modo per poterlo vivere nella sua interezza? Probabilmente no, ma la discussione in proposito potrebbe essere potenzialmente infinita: il rispetto per l’autore originale non deve comunque mancare in nessun caso, e sapere cosa ne pensano i diretti interessati può fornire alcuni spunti in tal senso.

Tim Schafer, uno dei padri del genere avventura grafica e attualmente a capo di Double Fine Productions, ha da sempre le idee chiare in proposito:

“Si tratta di pirateria? Certo. E allora? La maggior parte dei creatori di videogiochi non vive più grazie ai ricavi di quei vecchi titoli, e molte delle squadre creative dietro tutti quei giochi hanno da tempo lasciato le aziende che li hanno pubblicati, quindi non c'è nessun modo in cui i soggetti che detengono i diritti possano essere derubate. Quindi avanti: ruba questo gioco! Spargi l'amore!”

Tralasciando i toni un po’ troppo scanzonati a cui Schafer ci ha abituati nel corso degli anni, il messaggio passa forte e chiaro: condivisibile o no, il punto di vista dell’autore solleva ulteriori questioni legate alla legittimità di azioni del genere, soprattutto nel momento in cui non vi è altra soluzione. Di avviso leggermente diverso è invece Richard Garriott, padre della serie Ultima:

“Secondo la mia opinione un software viene davvero abbandonato solo molto tempo dopo essere stato posto fuori produzione, e il fatto che un libro sia fuori stampa non mi dà il diritto di stamparne delle copie per i miei amici.”

Abandonware: esiste una vera soluzione?

Anche ad alti livelli non esiste insomma un unico pensiero condiviso, e forse è anche questo un elemento concorrente nel costruire quell’aura di fascino che circonda il fenomeno degli abandonware. Dai vertici del settore è arrivata, nel 2008, quella che è per molti la risposta a tante delle questioni poste in essere all’interno di questo dibattito: l’azienda polacca CD Projekt ha infatti dato vita a GOG, acronimo che sta per Good Old Games.

Nato inizialmente come piattaforma per la distribuzione di grandi classici del passato, GOG è poi divenuto un sito di vendita di giochi in senso più ampio: lo spirito originale dell’operazione non si è però perso, e anzi ad oggi l’enorme catalogo risulta sempre in continua espansione. Con cifre davvero irrisorie è infatti possibile portarsi a casa alcuni titoli che hanno segnato la storia dei videogiochi, potendo attingere da produzioni di altissimo livello tra cui molte targate Revolution Software, LucasArts, Sierra e Square Enix.

La risposta alla domanda che dà il titolo a questo pezzo non è insomma univoca, e come abbiamo visto va a toccare tutta una serie di variabili spesso non dipendenti tra loro. Quello che speriamo, in quanto videogiocatori, è che titoli del genere non finiscano mai nel dimenticatoio: sarebbe infatti un peccato perdere per sempre un libro, una pellicola o un quadro capaci di emozionare e un videogioco, oggi, può tranquillamente considerarsi al livello di opere di questa portata.

Vi è tornata la voglia di recuperare qualche grande classico? In occasione del trentennale della serie, potete trovare su GOG diversi capitoli della serie Monkey Island a un prezzo davvero molto interessante: non fateveli scappare!