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Abandonware: dove vanno a finire i vecchi videogiochi?

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Avatar di Michele Pintaudi

a cura di Michele Pintaudi

Editor

Pubblicato il 14/09/2020 alle 10:00

Il mondo dei videogiochi, come ormai tutti sappiamo, è bello perché vario e sfaccettato. Se ne può infatti parlare sotto diversi termini: dall’analisi qualitativa alla predilezione per un genere piuttosto che per un altro, ma anche discutendo su quelle che sono alcune particolari sfumature di quella che è, a tutti gli effetti, una delle industrie più importanti nel mercato dell’intrattenimento.

Industria che, ogni anno, arriva a produrre un quantitativo di prodotti sempre più incredibile. Fattori come lo sviluppo del digital delivery e un accesso sostanzialmente semplificato a tecnologie di un certo tipo, soprattutto nell’ultimo decennio, portano infatti alla possibilità di creare e distribuire videogiochi in maniera relativamente semplice. Ciò porta poi a moltissime implicazioni che, positive o negative che siano, stanno rivoluzionando l’intero settore videoludico.

Quello della produzione di massa è un discorso che porta diretto a un termine noto a molti ma non a tutti, sul quale spesso è necessario fare chiarezza: “abandonware”. Riprendendo la definizione riportata dall’Enciclopedia Treccani, possiamo definire un abandonware in questo modo:

"Software rilasciato da oltre cinque anni che non è più commercializzato o in uso corrente in quanto divenuto obsoleto, sebbene ancora protetto dai diritti d’autore; conserva un interesse storico o individuale e riguarda in particolare i videogiochi."

Il fenomeno generato da questo particolare tipo di software è uno dei più chiacchierati nel mondo dei videogiochi, con centinaia e centinaia di community ad affrontare l’argomento e spesso a scontrarsi su questioni legate appunto al diritto d’autore. È legittimo, insomma, attingere da questi titoli in maniera gratuita alla luce del loro interesse prettamente storico? Quel che vogliamo fare oggi non è tanto rispondere a questa domanda, che lasciamo alla vostra libera opinione, quanto piuttosto scavare a fondo in quello che è divenuto con gli anni un vero e proprio movimento subculturale.

Abandonware: le false credenze e il continuo dibattito

Qual è l’esatto momento in cui un gioco può considerarsi abandonware? I casi sono molteplici, e nella maggior parte di essi troviamo riscontro nella cessazione della commercializzazione dello stesso. Ciò può avvenire perché il gioco non ha più mercato, ma anche a causa del fallimento dell’azienda addetta a produzione e/o distribuzione. Questo, come specificato nella definizione, non indica però l’assenza del diritto d’autore.

Troviamo qui infatti una prima questione spesso fraintesa: si tende infatti a ritenere l’abandonware un prodotto che, in quanto ormai fuori mercato, non è più sotto il controllo di nessuno. Questa, va detto, è un’eventualità: nella maggior parte dei casi però il copyright rimane di proprietà di determinati soggetti, magari di coloro che hanno rilevato determinate quote della società correlata.

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Nel momento in cui si effettua il download di una di queste applicazioni è dunque necessario accertarsi della situazione legata al diritto d’autore: se esso permane e l’utente decide comunque di scaricare gratuitamente il software, egli sta di fatto commettendo reato di pirateria. Il tutto è scongiurato nel caso in cui, come sempre più spesso avviene di recente, è il produttore stesso a decidere di diffondere in via del tutto gratuita il gioco.

Una folta schiera di utenti, pur consapevole delle possibili implicazioni legali, è e resta ferma su una posizione ben precisa. Emerge infatti il tema della conservazione storica, e il dibattito è sempre acceso e quantomai divisivo. È indubbio quanto moltissime opere – soprattutto se decidiamo di tornare a cavallo degli anni Ottanta/Novanta – abbiano scritto pagine fondamentali in quella che è la storia del medium videoludico, ragion per cui devono assolutamente essere conosciute dal grande pubblico anche soltanto per una questione culturale. In alcuni casi però questi titoli non risultano disponibili attraverso i canali ufficiali, e spesso i modi per poterli (ri)vivere in quanto esperienze sono due:

  • Acquistare il gioco nel suo supporto originale, soluzione che potrebbe però risultare enormemente dispendiosa;
  • Ricorrere a vie alternative, optando però per la pirateria.

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È dunque facilmente comprensibile come spesso il semplice atto della riscoperta possa divenire un’operazione tortuosa, che va a coinvolgere anche la sfera etica: è giusto “rubare” un gioco, se si tratta dell’unico modo per poterlo vivere nella sua interezza? Probabilmente no, ma la discussione in proposito potrebbe essere potenzialmente infinita: il rispetto per l’autore originale non deve comunque mancare in nessun caso, e sapere cosa ne pensano i diretti interessati può fornire alcuni spunti in tal senso.

Tim Schafer, uno dei padri del genere avventura grafica e attualmente a capo di Double Fine Productions, ha da sempre le idee chiare in proposito:

“Si tratta di pirateria? Certo. E allora? La maggior parte dei creatori di videogiochi non vive più grazie ai ricavi di quei vecchi titoli, e molte delle squadre creative dietro tutti quei giochi hanno da tempo lasciato le aziende che li hanno pubblicati, quindi non c'è nessun modo in cui i soggetti che detengono i diritti possano essere derubate. Quindi avanti: ruba questo gioco! Spargi l'amore!”

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Tralasciando i toni un po’ troppo scanzonati a cui Schafer ci ha abituati nel corso degli anni, il messaggio passa forte e chiaro: condivisibile o no, il punto di vista dell’autore solleva ulteriori questioni legate alla legittimità di azioni del genere, soprattutto nel momento in cui non vi è altra soluzione. Di avviso leggermente diverso è invece Richard Garriott, padre della serie Ultima:

“Secondo la mia opinione un software viene davvero abbandonato solo molto tempo dopo essere stato posto fuori produzione, e il fatto che un libro sia fuori stampa non mi dà il diritto di stamparne delle copie per i miei amici.”

Abandonware: esiste una vera soluzione?

Anche ad alti livelli non esiste insomma un unico pensiero condiviso, e forse è anche questo un elemento concorrente nel costruire quell’aura di fascino che circonda il fenomeno degli abandonware. Dai vertici del settore è arrivata, nel 2008, quella che è per molti la risposta a tante delle questioni poste in essere all’interno di questo dibattito: l’azienda polacca CD Projekt ha infatti dato vita a GOG, acronimo che sta per Good Old Games.

Nato inizialmente come piattaforma per la distribuzione di grandi classici del passato, GOG è poi divenuto un sito di vendita di giochi in senso più ampio: lo spirito originale dell’operazione non si è però perso, e anzi ad oggi l’enorme catalogo risulta sempre in continua espansione. Con cifre davvero irrisorie è infatti possibile portarsi a casa alcuni titoli che hanno segnato la storia dei videogiochi, potendo attingere da produzioni di altissimo livello tra cui molte targate Revolution Software, LucasArts, Sierra e Square Enix.

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La risposta alla domanda che dà il titolo a questo pezzo non è insomma univoca, e come abbiamo visto va a toccare tutta una serie di variabili spesso non dipendenti tra loro. Quello che speriamo, in quanto videogiocatori, è che titoli del genere non finiscano mai nel dimenticatoio: sarebbe infatti un peccato perdere per sempre un libro, una pellicola o un quadro capaci di emozionare e un videogioco, oggi, può tranquillamente considerarsi al livello di opere di questa portata.

Vi è tornata la voglia di recuperare qualche grande classico? In occasione del trentennale della serie, potete trovare su GOG diversi capitoli della serie Monkey Island a un prezzo davvero molto interessante: non fateveli scappare!
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