L’introduzione dell’intelligenza artificiale generativa nei videogiochi sta sollevando un dibattito che si fa ogni mese più acceso: da una parte, c’è chi la considera la più grande innovazione dai tempi dell’open world e chi, al contrario, la vede come un corpo estraneo capace di corrodere la natura stessa del medium. L’idea, sulla carta, è allettante: popolazioni digitali capaci di reagire in modo convincente, personaggi non giocanti che ricordano ciò che facciamo, quest che si modellano sulle nostre scelte e conversazioni che si adattano al nostro stile. Tutto questo, in teoria, dovrebbe rendere i mondi virtuali più ricchi, più profondi, più credibili. Esatto, in teoria.
La realtà, infatti, è ben diversa. L’uso dell’IA generativa negli NPC, almeno nella forma in cui alcuni studi stanno cercando di implementarla oggi, rischia di rivelarsi meramente una scorciatoia pericolosa, una tecnologia immatura che spesso demolisce immersione, coerenza narrativa e persino l’integrità estetica delle opere. L’esempio più discusso (nonché lampante) delle ultime settimane è quello di Where Winds Meet, ARPG wuxia free-to-play in grande ascesa, che ha introdotto NPC conversazionali basati su modelli linguistici.
Il titolo ha così riaperto il dilemma che già aleggiava nell'aria da mesi: gli NPC con IA sono davvero il futuro, oppure stanno rovinando qualcosa di prezioso? La risposta, come spesso accade, è più complessa di quanto sembri, e richiede di guardare sia ai fallimenti attuali sia alle tecnologie più avanzate, come NVIDIA ACE, che propongono un modello radicalmente diverso. Un modello che non punta ad abbandonare gli autori, ma a potenziarne la visione.
Il cortocircuito degli NPC “liberi”
Il caso di Where Winds Meet è emblematico perché evidenzia il principale problema degli NPC alimentati da IA generativa: l’imprevedibilità incontrollata, dato che lasciare a un chatbot open-ended il compito di impersonare un personaggio storico o fantastico significa, di fatto, rinunciare alla coerenza narrativa. Basta osservare i dialoghi condivisi online dai giocatori negli ultimi giorni, tra NPC convinti che il protagonista sia incinta, conversazioni sui bambini zombie, discussioni sull’esistenza stessa del videogioco, fino a dialoghi surreali su ketchup e patatine in un’ambientazione in cui il pomodoro non era ancora arrivato in Cina. Insomma, non si tratta di divagazioni innocue, ma di rotture drastiche del tono e dell’epoca, che rendono impossibile prendere sul serio qualunque cosa succeda nel mondo di gioco.
Il problema non è tanto la comicità involontaria, quanto il fatto che un NPC non dovrebbe mai essere libero di inventare ciò che non appartiene al mondo pensato dagli autori. D'altronde, un dialogo in un RPG non è una chat casuale su Internet, ma un atto narrativo; in un gioco, le parole plasmano la storia, definiscono l’atmosfera, mantengono il giocatore incollato allo schermo. Quando un sistema generativo produce risposte anacronistiche, incongrue o fuori tono, dunque, si frantuma completamente la cornice estetica dell’opera e la trasforma in un esperimento sociale privo di direzione.
A questo si aggiunge un altro tema, spesso ignorato: l’IA generativa non possiede consapevolezza del contesto in cui opera. Ignora le regole interne, le strutture narrative e persino le limitazioni del personaggio che dovrebbe interpretare; è plasmabile in tutte le direzioni e, proprio per questo, rischia di essere incompatibile con qualsiasi progetto che pretenda coerenza e controllo creativo.
Il costo nascosto
Oltre a minare l’immersione, gli NPC con IA generativa comportano conseguenze molto più profonde, che riguardano il presente e il futuro del medium. In primis, c’è una questione energetica, perché i modelli linguistici hanno un costo computazionale enorme e mantenere migliaia di conversazioni generate al volo significa aumentare drasticamente il consumo energetico complessivo dell’infrastruttura di gioco.
C’è poi il tema della sicurezza e della moderazione. Un NPC che può dire qualsiasi cosa può anche generare contenuti tossici, discriminatori o semplicemente inadatti al target del gioco. Gli incidenti già avvenuti in altri contesti dimostrano che basta un singolo errore per provocare scandali, controversie o danni d’immagine enormi.
Infine (e non meno importante), c’è una questione etica e creativa: sostituire scrittori, narrative designer e attori con risposte generate al volo significa perdere voci autoriali, tono, intenzione stilistica; significa accontentarsi dell’improvvisazione invece della progettazione; significa ridurre la scrittura a un algoritmo. È una strada che molti temono non solo perché rischia di erodere posti di lavoro, ma perché minaccia la qualità stessa delle storie videoludiche.
Il futuro non è questo
Nonostante tutto questo, però, sarebbe sbagliato - e irrealistico, vista l'epoca in cui ci troviamo - concludere che l’intelligenza artificiale non abbia alcun ruolo nel futuro dei videogiochi. Esiste un approccio molto più maturo e promettente, che vede l’IA come uno strumento al servizio degli sviluppatori e non come una sostituzione indiscriminata dei contenuti scritti. Il progetto più citato in questo senso è NVIDIA ACE, una suite di tecnologie progettate per creare NPC reattivi ma rigorosamente controllati.
La differenza rispetto ai chatbot “selvaggi” come quello di Where Winds Meet è radicale, giacché NVIDIA ACE non punta a far improvvisare l’NPC fuori dal contesto narrativo. Al contrario, delimita con precisione ciò che un personaggio può sapere, dire e fare; ogni NPC è definito da una personalità scritta dagli autori, da vincoli di lore, da una cronologia interna. Le risposte, quindi, non sono libere, ma generate entro regole severe che impediscono incoerenze. Insomma, l’IA, in questo caso, serve a creare sfumature, a rendere i dialoghi più naturali, a permettere reazioni dinamiche, ma sempre entro il perimetro del mondo di gioco.
In altre parole, l’obiettivo non è sostituire gli scrittori, ma amplificarne la voce. Ed è proprio qui che molti sviluppatori stanno guardando oggi: non alla libertà totale, ma a un’IA vincolata, precisa, consapevole della propria identità narrativa.
Gli NPC con IA rovinano i videogiochi? Oggi sì, domani forse no
Alla domanda “gli NPC con l’IA stanno rovinando i videogiochi?”, la risposta più onesta che possiamo dare, per lo meno dal nostro punto di vista, è che al momento rappresentano più un rischio che un vantaggio. Le implementazioni frettolose, prive di controllo creativo, generano situazioni grottesche, rompono il ritmo narrativo e trasformano i mondi digitali in terreni di gioco privi di forma... ma questo non significa che la tecnologia sia destinata a fallire.
Il futuro dipende, infatti, da quanto gli sviluppatori saranno capaci di integrare l’IA all’interno della cornice autoriale anziché usarla come scorciatoia; dipende dalla capacità di stabilire regole e limiti, di mantenere la coerenza estetica del mondo, di considerare l’IA come un attore che recita un ruolo e non come una mente libera di improvvisare qualunque cosa; dipende, in definitiva, dalla volontà di usare una tecnologia potente in modo responsabile.
Se questo equilibrio verrà trovato, l’IA potrà davvero arricchire i videogiochi senza snaturarli. Per ora, però, i casi come Where Winds Meet dimostrano che non basta “aggiungere un chatbot” per costruire mondi migliori. Serve una visione, serve regia, serve controllo. Senza tutto questo, l’IA non rende gli NPC più intelligenti: li rende soltanto più caotici. E il caos, in un videogioco, è raramente un buon narratore.