Il sofferente ritratto della psicosi in Hellblade: Senua's Sacrifice

I videogiochi hanno saputo raccontarci tanto della realtà: la malattia mentale, secondo Ninja Theory, è una splendida rappresentazione che merita di essere menzionata.

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a cura di Valentina Valzania

Ninja Theory, nel non molto lontano 2018, ci ha regalato un'esperienza senza precedenti, capace di parlare di malattia mentale, in un modo estremamente crudo e poetico allo stesso tempo. Ovviamente stiamo parlando di Hellblade: Senua's Sacrifice, un titolo che ha saputo far parlare di sé: Hellblade, o meglio il viaggio di Senua, è molto di più di una semplice "rispolverata" della mitologia, delle divinità corrotte, di Hela, della terra dei morti e dei condannati. Camminando intimoriti tra quei luoghi oscuri, e sempre più ambigui, che caratterizzano il gioco firmato Ninja Theory, abbiamo ben presto capito quanto si celava dietro tutto quel dolore.

Il titolo, non a caso, ci trasmette già molto nelle poche parole che lo costituiscono: ci descrive immediatamente il sacrificio di Senua, la nostra guerriera dilaniata dal dolore della perdita, straziata dal lutto del suo unico e solo amore, nell'oscurità di uno dei peggiori luoghi mai esistiti. Nell'inferno vichingo, la seguiamo armandoci di coraggio e dedizione per la sua causa, ma di quella porzione temibile dell'aldilà c'è molto meno di quanto potremmo immaginare. La protagonista e il suo viaggio sono un'enorme rappresentazione della psicosi e della malattia mentale in una delle sue forme più detestabili ed estenuanti, voci, pensieri, illusioni e traumi che tornano dal passato per divorare l'anima di una donna che ha perso se stessa in un inferno molto, troppo personale. Con lei, abbiamo deciso di affrontare questo sacrificio, con l'intento di giungere nell'Hel, ma è con voi che abbiamo intenzione di osservare da vicino quanto Hellblade sia stato in grado di disegnare il percorso tortuoso di una mente consumata.

L'impressionante lavoro di Ninja Theory

Ma partiamo dal contestualizzare la trama del gioco, dando anche uno sguardo generale alla storia che caratterizza questo complicato viaggio al fianco della nostra protagonista. Il gioco comincia in medias res, con la giovane guerriera Senua già diretta verso l'Helheim, il regno dei morti secondo la mitologia norrena; il mondo "reale", quello da cui dovrebbe provenire, non lo vediamo mai, prendiamo parte al suo viaggio quando si è già avventurata, nella speranza che Hela decida di liberare l'anima del suo amato (defunto) Dillion. Una volta superata la breve navigazione iniziale, verso quello che potremmo chiamare "l'androne" del mondo dei morti, non abbiamo potuto fare altro che notare e pensare immediatamente al nome di un consulente, un professore di Cambrige, Paul Fletcher. Questo esperto di neuroscienza, messo in bella vista all'inizio dell'opera, non poteva non suscitare la nostra attenzione; ma è stato tutto il resto del gioco a rendere la "verità" ancora più lampante.

Inizialmente sono le voci, numerosi e insistenti, a farci percepire la malattia della protagonista ma, viaggiando al suo fianco, tutto prende ancora più forma. Per assurdo, proprio nella confusione dei suoi traumi mischiati a creature mitologiche e credenze, diventa evidente la sua sconfinata sofferenza mentale. Quella disperata ricerca di redenzione dall'oscurità che tutti le hanno sempre detto di portare con sé, assume la forma della malattia: il tormento per la morte di Dillion si tramuta nella sua stessa colpevolizzazione e, come è ovvio che sia, il mondo intorno a lei diventa sempre meno reale a nostri occhi; comincia a rappresentare non tanto la mitologia norrena in tutte le sue temibili sfaccettature, ma i suoi timori più profondi. Per tutta la vita ha creduto di essere "marcia", tutti le hanno sempre ricordato di rappresentare il male, il padre in primis; il suo amato era l'unico a sostenerla senza remore e, dopo averlo trovato morto insieme al resto della tribù, la psicosi di Senua ha inghiottito inesorabilmente ogni parte sana rimasta. Con il trauma finale inizia il "sacrificio" della protagonista, che è in realtà un grido disperato, alla ricerca di un modo per ritrovare se stessa, nella sofferenza.

Dobbiamo dire che il team di sviluppo, affiancato da professionisti, ha saputo come stendere le basi giuste: ci ha inglobato in questa angoscia, nella confusione di una mente che non sa distinguere ciò che è reale da ciò che è immaginario, per questo Senua parte, pensando che riuscendo a liberare Dillion possa liberare se stessa da quella "oscurità". "The darkness": nel videogioco l'abbiamo sentita nominare, sussurrare, gridare decine e decine di volte, abbastanza da capire, ogni volta di più, quanto la psicosi della guerriera fosse reale, insita in ogni parte di lei, pronta a farla crollare nell'oblio in qualsiasi momento. Forse un oblio anche peggiore di quello riservato ai morti e il finale dell'opera ce lo dimostra incredibilmente perché la "scoperta" non è la liberazione dell'anima di Dillion ma la sua accettazione della perdita e della propria malattia, ben lontana da una maledizione; il viaggio si tramuta nella speranza di riuscire a ritrovare se stessa, una volta terminato questo estenuante percorso. Ma facciamo un passo indietro, o forse un passo avanti.

Il modo in cui è stata rappresentata la malattia mentale, nel corso della trama è estremamente coinvolgente e, cosa più importante, è veritiero. Ninja Theory e Paul Fletcher, lo specialista che ha aiutato il team da questo punto di vista, sapevano benissimo quanto i videogiochi avessero affrontato il tema in maniera estremamente superficiale, in grado di ferire persone affette da mental illness di vario genere: l'idea era proprio utilizzare la conoscenza del professore per creare un mondo in grado di dipingere un ritratto struggente e dettagliato della psicosi; e così, il progetto che sarebbe dovuto durare 18 mesi si tramutò in tre anni di lavoro senza sosta, di cui non saremo mai abbastanza grati.

Ed è così che "un semplice viaggio nell'Helheim" si è tramutato in una rappresentazione di primordine, in grado di parlarci (davvero) della psicosi grazie ai flashback e alle conversazioni, lunghe e intense, con i propri affetti defunti o con i propri compagni di cammino, presumibilmente immaginari. La bellezza di questa condivisione videoludica, è proprio nel ritrovarsi confusi al fianco di Senua, incapaci di capire se le sue visioni siano reali o meno, creando empatia con il subbuglio che gira nella testa della protagonista. Siamo arrivati a gridare "andate via!" a quelle voci che assillano la povera guerriera, in certi momenti di estrema paura: dispersi nel buio di una grotta, nel silenzio prima di una boss fight mentre sentiamo sussurrare, malignamente "non ce la farai, morirai, torna indietro, sei troppo debole". Ma sapete perché tanto di quello che viene rappresentato in Hellblade è così impattante? Perché oltre a Fletcher, ad aiutare Ninja Theory ci sono stati anche molti pazienti del professore, pronti a condividere le proprie esperienze e a dare un feedback veritiero su quello che significa soffrire di una malattia simile. Una collaborazione che ha saputo smuovere davvero la community videoludica.

Non possiamo non dedicare le nostre più sincere parole di ammirazione al team e a tutte le persone che hanno lavorato a questo progetto, con l'idea di intrattenere e di creare un videogioco in grado di parlare al pubblico di qualcosa che, realmente, affligge una buona fetta della popolazione mondiale. Hellblade: Senua's Sacrifice è la prova che con il gaming si può trasmettere tanto e raccontare prospettive di vita complicate, meritevoli di un loro spazio in questo ambiente, come in tutti gli altri.