Videogiochi: se li vuoi longevi basta centellinarli

I videogiochi di oggi hanno una longevità variabile, ma ogni esperienza può essere longeva se si sa come centellinarla.

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a cura di Alessandro Tonoli

Il gamer è un animale che vive di profonde contraddizioni, e di ogni tipo. Dalle più superficiali ed effimere, relative alla nostra saga preferita, a quelle più profonde, che ci portano a scontrarci su argomenti di mercato che nemmeno comprendiamo per intero. Siamo così. Ci sono però anche altre contraddizioni con cui bisogna fare i conti. Più relative, invece, al modo con cui ognuno sceglie di approcciarsi ai propri videogiochi preferiti. Tra le tante, una su tutte è la più infida: quella che si sviluppa nel momento in cui entriamo in possesso di un titolo che probabilmente abbiamo aspettato per lunghissimo tempo.

Sarà capitato a tutti e, cadenzialmente, continuerà a ricapitarci finchè morte non ci separi dal pad. Di prendere in mano quel gioco che ti fa dire “ok, me lo gioco con calma”, ma dentro poi ti accorgi che non funziona così. Dentro di te, in realtà, sta andando tutto allo sfacelo, perchè senti una spinta irrefrenabile, che ti porterebbe a chiudere i battenti delle finestre, murare le porte e dare fuoco a qualunque forma di contaminazione esterna, pur di rimanere lì, a macinare ore di gioco nel mondo che tanto ti sta affascinando in quel momento.

È il pegno da pagare per aver avuto un dono tanto atteso. Umanisticamente, nient’altro che la traduzione della paura della morte nel momento in cui veniamo in possesso della vita.Una paura della “fine” vecchia come il mondo, che a un certo punto fa nascere in noi un desiderio ben preciso: quello di centellinare qualcosa di cui siamo entrati in possesso, e che abbiamo il terrore che finisca troppo presto.

L’arte del centellinare

Andando a caccia nella mia memoria di videogiocatore, l’ultima volta che ho sentito questo effetto su un titolo è stata con Lost Words - Beyond the Page, opera del panorama indipendente uscita nel corso dell’anno appena trascorso. Mi ricordo che ero lì, davanti al monitor, incantato da quelle pagine che scorrevano davanti allo schermo e questa bambina appena tratteggiata che saltava così dolcemente sulle parole, portandole in vita. Il suo racconto poi prendeva a farsi strada nella mia mente. È stato amore a prima vista. Una dolcezza così potente che ha fatto subito scattare in me quel trigger, quel freno a mano psicologioco tirato su una macchina lanciata a 300km/h, capace di farti dire: “devo riuscire a far durare quest’esperienza il più a lungo possibile”.

A contribuire all’entrata in gioco di questo sottosistema di preservamento esperienziale, ci sono diversi fattori. Uno su tutti, ovviamente, è la qualità percepita del titolo. Quando quel “qualcosa” scatta, indirettamente, è come se stessimo già assegnando il nostro personalissimo dieci in pagella. Non in termini assoluti, sia chiaro. Per analizzare fenomeni di questo tipo si va lontani mille miglia da qualunque riflessione oggettiva. Ma in termini soggettivi sì, ed è un giudizio sacrosanto. Potrebbe però benissimo non essere la qualità che percepiamo a farci scattare quel trigger; potrebbero essere, invece, alcune caratteristiche più peculiari, che fanno leva sui ricordi, come esperienze personali che quel tipo di prodotto ci ha aiutato a rivivere o, inversamente, ci permette di vivere, se parliamo magari di esperienze tanto desiderate ma che, per una ragione o per l’altra, non abbiamo avuto modo di sperimentare nella realtà.

Sta di fatto che quando scatta, la musica è sempre quella: ti ritrovi lì, col tuo pad in mano a tentare di capire come far rallentare quella macchina che ti vorrebbe portare verso la fine della corsa, perché la gara è bella e il traguardo fa sempre gola, ma tu sai che la fine ti farà fare i conti di nuovo con l’assenza di quel qualcosa che tanto, in quel momento, ti genera meraviglia e stupore. Qualcosa di esattamente identico a quello che succede nel momento in cui scopri la serie tv o il libro della vita. Esattamente la stessa cosa. Se non fosse che…

Che quelli appena citati non sono media interattivi, mentre il videogioco sì, lo è. E come tale, il tempo per fruirlo per intero, per arrivare alla sua conclusione, non è legato esclusivamente alla nostra velocità di fruizione (tipico anche dei media non interattivi – es. leggo una pagina al mese), ma comprende anche le modalità con cui decidiamo di affrontare il nostro percorso (es. non uso gli spostamenti rapidi), cosa che porta quasi la totalità dei giochi ad avere una durata, possibilmente, infinita.

Un milione di modi per allungare brodo

È a quel punto che l’interattività la fa da padrona, quel qualcosa che ci è scattato in testa si rimbocca le maniche, e mette in piedi una serie di situazioni ai limiti del paradossale, pur di farlo durare il più possibile, azioni che si differenziano molto a seconda del tipo di gioco che si sta affrontando. Ad esempio? Inizi a fare qualsiasi quest secondaria ti capiti a tiro, anche quelle più scabrose, o che davvero poco hanno da aggiungere in realtà all’esperienza di gioco. In un gioco a trama lineare invece puoi iniziare a girare per gli scenari con spasmodica lentezza, tentando di far andare il personaggio al ritmo che la storia dovrebbe prevedere per acquisire maggiore effetto scenico: lo fai camminare piano, lasci che la musica incalzi, muovi la camera a destra a e sinistra per goderti l’effetto globale della scena.

Parliamo di un gioco esclusivamente narrativo? Beh, perché non iniziare a parlare con qualsiasi png, alla ricerca della frase in grado di aumentare ancora di più l’atmosfera generale del gioco. Persino morire, il game over, la nemesi di ogni giocatore, può diventare quasi un sollievo, se si realizza che ritentare un passaggio ostico più e più volte contribuisce ad allontanare sempre di più lo spettro della fine del gioco (grazie Souls-like). O perché non pensare ai momenti più folli, quando per continuare a respirare l’aria di un titolo si arriva persino a perdersi nella scenografia degli interni, osservando in maniera accurata le pareti delle stanze che visitiamo, meravigliati dalle centinaia di piccole opere che è possibile trovarvi appese: piccoli quadri deliziosi, opere d’arte trasportate lì dal potere della rimediazione. Sempre restando in tema di arti figurative, come non citare l’elemento ludico che più di tutti oggi forse ci consente di creare un vero e proprio gioco nel gioco, ed è capace di potenziare a dismisura questa nostra centellinazione: la modalità fotografica. Vero deus-ex machina di tempo e spazio.

Non spezzare l’incanto

Questi sono solo alcuni dei tanti piccoli esempi che si potrebbero mettere in pratica per aiutarci ad allungare il nostro personalissimo brodo di piacere. E l’end-game? L’iniezione di nuovi contenuti? Ni. Per quanto superficialmente potrebbe sembrare ideale come sistema (il vero non plus ultra di questo concetto) in realtà si rivela tremendamente distante. Perché? Perché qui non si parla tanto di nuovi stimoli con cui venire a contatto e che ci permettano così di ritrovare interesse per il gioco, quanto di un interesse già presente, fervido, che non necessita di ulteriore benzina esterna, ma che ha già tutto per metterselo in circolo da sé quel carburante. E poi si sa, una volta che qualcosa finisce, che gli si mette un punto, quando poi si prova a ricominciare non è esattamente la stessa cosa.

Le stanze magiche che visitiamo vivono di incantesimi improvvisi, che si spezzano con poco; rientrandoci, per quanto strano, potrebbero non sembrarci più le stesse. Sherlock Holmes non può essere riportato in vita per sempre. Per questo è importante sfruttare il momento, continuare ad approfondire l’esperienza finchè è viva, finchè coglie la nostra curiosità e la nostra passione grazie a una fortunosa commistione di elementi imprevedibili. Anche se dentro sentiamo sempre quella spinta che ci porta a volere tutto e subito. Giochi in grado di farci scontrare con questo desiderio di lentezza sono rari e quantomai importanti per il nostro amato media.

Perché è cosa buona e giusta

Approcciare i titoli in questo modo non può che portare benefici, mettendo da parte l’ovvia considerazione “se tutti giocassimo davvero in questo modo a qualunque gioco si venderebbero tre titoli all’anno per persona” che al mercato non gioverebbe granchè. Ma perché è un bene cedere alla centellinazione?

In primis per fare un favore a noi stessi, ovviamente: solo aumentando la nostra concentrazione verso una particolare opera possiamo far sì che essa ci permei realmente, arrivando a incidersi in noi, senza far sì che si perda nel mare di stimoli da cui siamo continuamente sommersi, e tra cui continuiamo a saltare, da uno all’altro, senza sosta, costantemente irrequieti. Secondariamente, tutto va a vantaggio del nostro portafoglio, che non sarà costretto a sborsare continuamente soldi per avere qualcosa di nuovo, quando abbiamo già un ammontare di roba scalfito solo superficialmente.

Terzo, ma non meno importante: questo tipo di approccio valorizza ulteriormente il lavoro dei team di sviluppo, che impegnano ore ed ore per la creazione di asset e dettagli artistici che a volte non vengono nemmeno presi in considerazione. Più volte mi è capitato di pensare, aggirandomi per scenari non per forza meravigliosi (ma anche solo discretamente d’effetto) che qualunque frame di quell’ambientazione, se stampato e incorniciato a dovere, avrebbe avuto tutti i requisiti necessari per avere un’esposizione museale. Ma io, col mio approccio “frenetico”, ci stavo passando in mezzo così velocemente da rendere quell’opera, frutto della sensibilità e dell’ingegno umano, quasi superflua, quasi inesistente.

Uno degli aspetti più caratteristici del medium videoludico è proprio quello di essere in grado di costruire veri e propri mondi, dando al giocatore l’opportunità di “visitarli”. Ma questa visita non deve per forza essere scandita dal timing che il game design del gioco vorrebbe imporre per sue dinamiche interne. Se compare una freccia gigante in sovraimpressione che ci dice dove andare, anche se è del tutto naturale cedere all’istinto di seguirla, non è obbligatorio farlo. Soprattutto se nel farlo arriviamo a perdere quei dettagli che per noi, con qualche secondo in più di attenzione, potrebbero fare la differenza.

La fine del gioco, il punto più delizioso, resterà lì dov’è, non ce la toglierà nessuno, nemmeno la fretta di un mercato esterno che sembra continuamente dirci: vai veloce che c’è dell’altro già pronto per te. Quando sentiamo che il gioco ci porta a farlo durare il più possibile dobbiamo fare soltanto una cosa: prendere il pad in mano e, in qualunque modo, centellinarlo più che possiamo.