Wolfenstein 3D compie 30 anni, buon compleanno vecchio bastardo!

Wolfenstein 3D compie trent'anni e noi abbiamo deciso di rimarcare i motivi per cui Blazkowicz è diventato un'icona videoludica.

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Oggi come oggi, se dici FPS, le persone ti tirano in faccia le copie invendute di un COD a caso o, al più, di un Battlefield, se l'interlocutore ha uno spirito un po' anticonformista che COD, si sa, non piace proprio a tutti. Eppure un tempo non era così, gli FPS, per quanto genere rampante e sempre sulla cresta dell'onda, erano pochini e rappresentavano, un po' come fu per gli JRPG negli anni '90 e 2000 o per gli open world di oggi, la punta di diamante del settore dei videogame.

Se sviluppavi un FPS il tuo era un team di sviluppo fico, perché un FPS significava, quasi sempre, affrontare uno sviluppo produttivo notevole, perché in un'epoca in cui il 3D muoveva i primi passi, dare al giocatore una parvenza di tridimensionalità non era cosa semplice, specie perché parliamo di un periodo in cui il massimo della tridimensionalità erano le ombre che davano spessore ai lati dei tubi di Super Mario.

Ora, se tutto questo iter storico ha avuto luogo. Se, in sostanza, il mercato degli FPS è oggi così florido e se, al contempo, lo sviluppo ha cominciato ad affacciarsi al mondo dei poligoni, abbandonando quello degli sprite, il merito è certamente di un paio di persone e poco più. Quelle persone sono la bella gente della id Software che fu, quando ai tempi era gestita da quel mix di genio e sregolatezza che erano John Carmack e John Romero, passati agli annali anche come i creatori di Doom, e padri di un modo sperimentale di fare videogame che, oggi come oggi, non esiste praticamente più, se non nelle frange più oscure del mercato indie.

Eppure, dal mio punto di vista, non è tanto a Doom che dobbiamo il merito di aver reso lo sparatutto in prima persona così popolare e rivoluzionario, ma a Wolfenstein 3D, uscito appena un anno prima e divenuto, nel giro di brevissimo tempo, una delle cose più belle che si poteva giocare su PC, in un'epoca in cui avere un PC in casa era considerato più che un lusso, ma un vero e proprio privilegio. Wolfenstein 3D, che questa settimana compie la bellezza di 30 anni (ed è per questo che siamo qui a celebralo, giacché arrivava sul mercato il 5 maggio del 1992), nasce in un'epoca in cui il videogame sembrava più semplice, pur non essendolo affatto.

In questo senso, nella sua schietta brutalità, anche Wolfenstein 3D sembrerebbe, tutto sommato, un prodotto di “poco conto”, cosa possibile solo se si ricadesse nell'errore di consideralo un classico degno di lodi solo perché cronologicamente venuto prima. Mai errore sarebbe più grande, anche solo perché, contrariamente a quello che comunemente si ritiene, ovvero che Wolfenstein 3D o, al più, Doom, siano stati gli antesignani del genere in prima persona, tale primato spetta in realtà ad un altro titolo, di cui Wolfenstein 3D non è che un'evoluzione o, se vogliamo, una raffinazione, e che era stato sviluppato appena un anno prima da Carmack e soci, ovvero Catacomb 3-D.

Un vero e proprio crocevia per lo sviluppo storico del genere FPS, grazie soprattutto al fatto di essere stato il primo e assoluto introduttore della prima versione del Wolfenstein 3D Engine, ovvero del motore di gioco che avrebbe poi animato Wolfenstein 3D e che, con Catacomb, compieva i suoi primi e timidi passi. Perché allora celebriamo Wolfenstein e non Catacomb come la serie “madre” per lo sviluppo del mondo degli FPS? Sostanzialmente, verrebbe da dire che i motivi sono tutti relativi al successo commerciale, dovuto più che altro non solo al setting evocativo a base di nazisti e mostruosità annesse, ma in realtà dietro al successo di Wolfenstein 3D c'è molto di più, a partire dalla versatilità del motore di gioco che, pur presentando una visuale dalla profondità tridimensionale, riusciva a funzionare bene anche su computer non particolarmente performanti il che, in un'epoca in cui la memoria di un PC era minore di quella di una moderna scheda SD, non è affatto da sottovalutare.

Non solo, Wolfenstein 3D aveva dalla sua un sistema di gioco il cui unico scopo era quello di tenere il giocatore attento e galvanizzato. Non c'erano fronzoli che non fossero tesori, armi e nemici, e l'azione tutta scorreva senza sosta dall'inizio alla fine di un livello. In questo, persino i movimenti del protagonista ed i tempi di reattività dei nemici erano spinti all'estremo (per l'epoca), contribuendo a rendere l'esplorazione delle mappe e, soprattutto, i combattimenti, un turbinio di emozioni per giocatori che, fino a quel momento, non avevano grossa dimestichezza con le reattività in ambienti in 3 dimensioni che, per forza di cose, creavano angoli ciechi e contribuivano, non poco, ad addossare al player un senso di disagio ed inadeguatezza.

È un po' il trucco adottato, anni dopo, dalle visuali fisse di titoli come Resident Evil in cui, proprio i limiti o, se vogliamo, l'impossibilità di tenere tutto costantemente sotto controllo, aumentavano nel giocatore/spettatore angoscia e paura. Questo è un aspetto fondamentale da tenere in considerazione, perché da questo discende, in gran parte, anche il concept dei moderni FPS, che spesso tendono a non perdersi in troppe chiacchiere, sfidando il giocatore a mantenere alta la reattività, pur avendo tra le mani (digitali) un buon numero di bocche di fuoco utili a fronteggiate i nemici.

Non solo, in Wolfenstein 3D si cominciava la propria guerra solo con 2 oggetti: una pistola ed un coltello per gli attacchi melee. Una coppia consacratasi poi, anche negli anni a seguire, in qualsiasi videogame con un minimo di gameplay a base di proiettili, ed utile proprio a calare il giocatore in una condizione di stress emotivo e di inadeguatezza (Resident Evil ancora una volta). Wolfenstein 3D, dunque, non solo per azione, ma anche per la reazione che pretendeva di scaturire nel giocatore, concorreva costantemente nell'insinuare disagio e insicurezza, per altro amplificati da livelli che, salvo che per pochi dettagli (spoiler: tutti utili ad orientarsi), non offrivano altro che mura spoglie e corridoi stretti senza soluzione di continuità.

Un vero e proprio incubo che, non a caso, verrà poi ripescato, proprio in queste vesti, da MachineGames che, reboottando la serie, utilizzò i livelli a corridoi di Wolfenstein 3D per rappresentare gli incubi di guerra del protagonista B.J. Blazkowicz. Cosa che, se non avevate mai notato e ci state riflettendo solo ora, ammetterete trattarsi di un'idea con una buona dose di genio.

Ma, al di la di questo, che altro c'era in Wolfenstein 3D che lo rendeva grade? A memoria vi direi che c'era un mucchio di sangue, ed un buon livello di difficoltà. Ben prima dello splatter pixelloso di Doom, Wolf 3D spingeva su di una violenza che per il giocatore dell'epoca era visivamente appagante, e che era direttamente figlia di una mentalità tipica degli anni '90, in cui una certa esagerazione delle tematiche mature aveva fatto nascere, non a caso, un altro grande capolavoro della violenza videoludica, ovvero Mortal Kombat, che con Wolf 3D non condivide solo il sangue, ma anche l'anno di uscita: il 1992.

Al tempo c'era poco spazio per i sentimentalismi, il mondo riscopriva “il piacere” di una violenza estrema e spettacolarizzata, figlia di un lungo ciclo cinematografico che aveva consacrato l'action come la più esplosiva forma d'espressione della settima arte. In quel percorso, fatto di Kurt Russel, Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger e compagni, l'azione soprassedeva sempre sulle parole, ed attraverso scarnificazioni ed esplosioni, contribuiva a creare un nuovo immaginario narrativo nella mente delle persone che, ovviamente, volevano che quella forma di sanguinolento espressionismo anche in quello splendido e interattivo medium che era il videogame.

Il gioco, inoltre, era davvero veloce e scattante, e certi nemici avevano un tempo di reazione quasi istantaneo il che, tutto sommato, era una novità per il mondo dei videogame in cui, fino a quel momento, la gran parte delle esperienze proponeva nemici in locazioni fisse, e con movest scriptati. Wolfestein 3D era invece difficile. I nemici ti davano la caccia, cominciavano a sparare non appena ti scorgevano dall'angolo e, per i motivi di cui sopra, spesso li si scovava nascosti dietro gli angoli tridimensionali delle mappe, innescando un'escalation omicida che, complice l'inesperienza delle prime run, poteva rapidamente portare alla morte del giocatore.

In Wolfenstein 3D diremmo, insomma, che non c'è poi molto spazio per le parole, se non per poche frasi funzionali, utili sia ad identificare i nemici che a specificare al giocatore la loro morte. Non c'è altro e, per capire ancora più a fondo la rottura che il gioco ha voluto innescare rispetto a ciò che era venuto prima, basti solo pensare al fatto che Wolfenstein 3D non è un titolo stand alone, figlio di un lampo di genio balenato nella mente di Carmack e Romero (o almeno, non è solo quello), ma è il terzo capitolo di una serie i cui primi due episodi, sviluppati da Muse Software - il cui destino fu quello di una prematura bancarotta nell'87 - erano del tutto lontani dalla verve sparacchina e, a questo punto, “action” del terzo capitolo.

Per quanto con tutti i limiti dell'epoca, Castle Wolfenstein e Beyond Castle Wolfenstein non erano degli shooter, ma erano più simili a dei titoli stealth in cui il giocatore sparava molto poco e, per lo più, si limitava ad un'immensa azione di infiltrazione. In questo senso, non vi dovrebbe sorprendere sapere che proprio Castle Wolfenstein fu tra le principali ispirazioni dell'originale serie Metal Gear. Lo schema ludico impostato da Kojima, infatti, è del tutto identico ai due titoli sopraccitati e, salvo ovvie migliorie tecniche, anche in quelle che erano le interazioni col mondo di gioco, basta un confronto tra gli screen dei due primi Wolf con Metal Gear e Metal Gear 2: Solid Snake per rendersi conto che, in fin dei conti, anche a Muse Software andrebbe titolato ben più di un tributo.

Digressione kojimiana a parte, il punto è che Wolfenstein 3D scelse di allontanarsi nettamente dai suoi due predecessori, con id Software che decise sì di raccoglierne l'eredità, ma solo nel setting più che nella filosofia, decurtando (probabilmente anche per limiti tecnici), qualsiasi aggancio ludico potesse rimandare ai primi due capitoli, come lo stealth o anche solo la possibilità di frugare i nemici in cerca di oggetti.

Carmack e Romero, in tal senso, vollero invece concentrare gli sforzi sullo sviluppo di un titolo puramente action, che mettesse ben in mostra le qualità di un motore di gioco che, per l'epoca, era rivoluzionario: niente lag, nessuno scatto, nessun macchinoso caricamento. Ma c'è di più. Mascherando i limiti tecnici di un Wolfenstein 3D Engine ancora lontano dalla bellezza che avrebbe poi consacrato Doom, Wolfenstein 3D si prendeva il lusso di comprimere il giocatore in una asfissiante claustrofobia, facendo delle mappe, certamente più piccole rispetto a Doom, dei cunicoli da vivere comunque al cardiopalma, anche al netto di una lista di nemici non particolarmente folta.

Questo perché, volendo comunque rispettare l'atmosfera stealth delle origini, Wolfenstein 3D faceva della tensione e della presenza dei nemici nascosti dietro agli angoli uno dei suoi aspetti vincenti, contribuendo a mettere suspense al giocatore anche attraverso uno splendido (almeno per l'epoca) comparto sonoro, il cui accompagnamento musicale sembrava non andare di pari passo con il gunplay del gioco.

L'asso nella manica era la combinazione tra un musica calma, composta, apparentemente anticlimatica rispetto all'azione, ed un setting dedalico, che teneva il giocatore in uno stato di costante tensione, anche al netto di una reattività del protagonista lodevole. Tracce sonore come “Get Them Before They Get You” e “Searching For The Enemy”, composte dal leggendario Bobby Prince, inducevano un tensione assurda alla marcia nei lunghi livelli di gioco, contribuendo a creare quella continuità con i due titoli precedenti che, seppur solo sulla carta, resero Wolfenstein 3D così intenso e coinvolgente.

Dunque perché Wolfenstein 3D, e non Catacob 3-D, è il capostipite del genere? Per un motivo e uno soltanto: lo stato di grazia in cui fu concepito e realizzato che, anche al netto di limiti perfettamente mascherati, lo consacrò sul mercato (e nella storia) come una pietra miliare del genere. Non solo, perché a Wolfenstein 3D va anche il merito di aver contribuito a realizzare l'idea, all'epoca embrionale, che si potesse creare una forte immedesimazione del giocatore col suo avatar digitale, e questo non per motivi si somiglianza, sesso o ideologia, ma per le sensazioni o, se vogliamo, per le emozioni che attraverso quell'avatar riuscivano poi ad attaccarsi al giocatore.

In questo senso, Wolfenstein 3D è un primo ed autentico esempio di videogame dalla componente narrativa “moderna”, per quanto più che incarnare uno spirito di rivoluzione narrativa, incarna semmai una semplice idea, nella stessa forma in cui diremmo che le pitture rupestri sono antesignane dell'odierna concezione di arte. Due parenti alla lontana, che comunque condividono un'unica matrice.

E dunque, ancora una volta con i suoi limiti, Wolfenstein 3D ci ha comunque permesso di vivere una grande avventura. Ci ha trasmesso, ed ancora lo fa, adrenalina e suspance, ed anche se sono sono passati 30 anni da quando esplorammo quei corridoi angusti e tutti un po' simili a sé stessi, quell'eredità è ancora viva e fortissima, anche solo attraverso il nuovo volto di B.J. Blazkowicz che, più di recente, è stato splendidamente riportato alla vita dal lavoro di Besthesda e di MachineGames per il nuovo corso della serie. Buon compleanno vecchio bastardo.