La crescita impetuosa degli studi cinesi, capaci di sfornare titoli di successo planetario con ritmi impensabili per i competitor nipponici, ha spinto uno dei veterani del gaming giapponese a fare un'analisi tanto lucida quanto controversa.
Shuhei Yoshida, figura storica di PlayStation, ha sollevato il velo su una realtà che molti nell'industria preferirebbero ignorare: la differenza nelle condizioni lavorative tra i due paesi rappresenta un divario incolmabile.
In un'intervista rilasciata alla testata giapponese 4Gamer e successivamente tradotta da Automaton, l'ex dirigente di Sony ha espresso ammirazione per la velocità di sviluppo che caratterizza l'industria cinese. Yoshida ha sottolineato come gli studi cinesi dimostrino una capacità di gestione del personale estremamente dinamica, con tempistiche che lasciano indietro la concorrenza nipponica. Il turnover rapido e l'intero processo produttivo procedono a un ritmo che definisce "sbalorditivo".
La questione si fa particolarmente interessante quando Yoshida riporta colloqui avuti direttamente con rappresentanti di miHoYo, il colosso dietro il fenomeno globale Genshin Impact. Durante questi confronti è emerso chiaramente come i metodi produttivi dello studio cinese sarebbero praticamente impossibili da replicare in Giappone. Non si tratta solo di una questione di filosofia aziendale o di approccio creativo, ma di ostacoli concreti e insormontabili.
L'ex boss di PlayStation non usa giri di parole quando identifica il fattore determinante della competitività cinese: la possibilità di assumere un gran numero di persone disposte a lavorare per molte ore. Questo modello organizzativo, secondo Yoshida, costituisce il principale vantaggio degli studi cinesi, permettendo loro di dominare il mercato con produzioni che combinano qualità e rapidità di rilascio. Il dirigente però fa notare come questa prassi si scontrerebbe con problematiche di natura legale qualora venisse applicata in territorio giapponese, dove le normative sul lavoro impongono vincoli più stringenti.
La riflessione di Yoshida arriva in un momento delicato per l'industria videoludica nipponica, che vede erodere progressivamente la propria quota di mercato globale. Mentre il Giappone ha dato i natali a franchise immortali e continua a sfornare titoli di qualità, la capacità produttiva degli studi cinesi sta ridisegnando gli equilibri del settore. Il caso di miHoYo rappresenta l'esempio più lampante: partito come studio relativamente sconosciuto, è diventato in pochi anni un gigante mondiale grazie a Genshin Impact, capace di generare miliardi di dollari di ricavi.
Nel frattempo, l'industria giapponese si trova ad affrontare un'altra battaglia sul fronte tecnologico. Il mese scorso diverse major nipponiche, tra cui Bandai Namco e Square Enix, si sono unite attraverso CODA (Content Overseas Distribution Association) per chiedere a Open AI di interrompere l'addestramento del suo strumento di generazione video Sora 2 utilizzando le loro opere creative. La dichiarazione ufficiale, pubblicata sul sito dell'associazione, rivendica il diritto dei membri di non vedere i propri lavori sfruttati per l'apprendimento automatico senza consenso preventivo.
La posizione espressa da Yoshida solleva interrogativi complessi sul futuro del settore. Da un lato, la tutela dei lavoratori e il rispetto delle normative rappresentano conquiste civili irrinunciabili per un paese sviluppato come il Giappone. Dall'altro, questa stessa protezione rischia di trasformarsi in uno svantaggio competitivo quando confrontata con mercati dove le regole sono diverse o meno rigide. Il dilemma non ammette soluzioni semplici: accettare una competizione basata su standard lavorativi così divergenti significa riconoscere l'impossibilità di competere su un piano di parità.