I lavoratori che fanno l'iPhone stanno meglio, hanno la sedia

Il New York Times racconta di qualche lieve miglioramento nelle condizioni di lavoro presso la fabbriche cinesi dove si assemblano smartphone, tablet e PC. Ancora molta la strada da fare, ed Apple dovrebbe guidare il rinnovamento.

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a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

Le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi sono un po' migliorate nell'ultimo anno, secondo il New York Times. Il lavoro è più confortevole e sicuro: in almeno uno stabilimento Foxconn per esempio nelle linee di assemblaggio dell'iPad di Apple sono state finalmente distribuite sedie con schienali alti, che danno un sostanzioso contributo a prevenire il mal di schiena.

Una piccolezza per un osservatore occidentale, così come i dispositivi per l'arresto di emergenza delle macchine o la schiuma antiurto sui soffitti bassi. Eppure delle piccole rivoluzioni nei luoghi dove si producono smartphone, tablet e PC di ogni marca.

Vediamo cosa c'è sotto

La stessa Apple ha fatto dei passi avanti, triplicando il numero di persone che lavora alla Responsabilità Sociale d'Impresa, che si occupa di risolvere le critiche emerse nell'ultimo anno – dalla pubblicazione del primo articolo del NYT.

L'articolo del Times però è in netto contrasto con quanto avevano scoperto alcuni report francesi solo un paio di settimane fa, e misteriosamente i giornalisti newyorkesi non citano nemmeno il lavoro dei loro colleghi. Una scelta che non rende onore alla testata più famosa del mondo, che alcuni accusano di trattare Apple "con i guanti", seppure non manchi di citare le criticità.

La maggior parte della strada infatti è ancora da fare. "I giorni della globalizzazione facile sono finiti", avrebbe detto un dirigente Apple al NYT. "Ora dobbiamo infangarci". Gli fa eco Gari Niekerk, della Responsabilità Sociale di Intel: "questa è una priorità per tutti. Nessuno in Intel vuole una fabbrica che tratta male la gente e finire in prima pagina".

Ora possono sedersi, ed è già un passo avanti

Restano infatti alcuni dei problemi più difficili da risolvere, come quello degli "stage forzati" per gli studenti, o delle eccessive ore di straordinario. A proposito di quest'ultimo tema, Foxconn ha fatto sapere che l'obiettivo è limitare il totale a 49 ore lavorative per settimana – cioè il massimo consentito dalle leggi cinesi.

Allo stesso tempo l'azienda vorrebbe alzare gli stipendi in modo tale che la riduzione d'orario non tagli il reddito dei lavoratori. Un problema di cui i primi a lamentarsi sono i dipendenti stessi. Dove si lavora meno a parità di paga oraria infatti è nato un problema piuttosto serio, tanto che secondo alcuni operai "gli straordinari erano come una benedizione". Non manca chi sarebbe felice si lavora 80, 90, anche cento ore a settimana pur di avere in tasca più denaro.

Dare sedie comode ai lavoratori è stato difficile perché per molti impresari cinesi la comodità equivale pigrizia e scarsa produttività. E una sfida ancora più grande è trasmettere una nuova mentalità ai dirigenti dei vari reparti - che generalmente sono abituati a usare l'insulto e la minaccia come strumenti principali, e a vedere nella disciplina quasi militare l'unico valido strumento per ottenere risultati di qualità.

Altre tensioni da risolvere riguardano quelle tra Foxconn e la stessa Apple: molti ritengono che il costo dei miglioramenti debba andare sul conto dell'azienda californiana. Quest'ultima ha un'opinione diversa a riguardo. In ogni caso, gli ispettori della Fair Labor Association (FLA, organizzazione scelta da Apple per controllare la situazione) confermano e mettono il dito nella piaga: Apple deve cambiare, non solo Foxconn.

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Un cambiamento dei più essenziali, perché si punta l'indice sulla segretezza. Perché "i problemi dell'industria elettronica non diminuiranno per davvero finché Apple non assumerà un ruolo di guida pubblica", come ha fatto per esempio Nike nel proprio settore.

Apple in altre parole dovrebbe condividere le proprie informazioni e le proprie strategie di responsabilità sociale, ma "ha paura che aprire troppo il kimono rovinerebbe ciò che l'ha resa speciale", come ha detto un ex dirigente dell'azienda californiana.

Insomma ci vuole, ci vorrebbe, più trasparenza. La cosa più difficile di tutte per Apple, che si è costruita intorno uno spesso scudo di riservatezza, quasi paranoica. La trasparenza per la casa di Cupertino è sconosciuta o quasi: basta guardare al report periodico sui fornitori, che è interessante ma anche povero di dettagli.

Ecco, forse è in questi termini che va guardata la recente tendenza a riportare la produzione negli Stati Uniti, di cui è protagonista anche Apple. Proprio in questi giorni per esempio si mormora che Foxconn aprirà negli USA stabilimenti per produrre il Mac Mini, e qualche settimana fa si parlava di fabbricazione gestita direttamente da Apple.

Forse Apple preferisce questa strada al cambio profondo che le chiede la FLA, ma le possibili ragioni del "ritorno a casa" sono anche tante altre. Sappiamo per certo però che non si tratta di competenze, come Steve Jobs prima e Tim Cook poi avevano provato a farci credere: per assemblare gli iPhone non ci vogliono ingegneri, ma masse di manovalanza poco qualificata che possa garantire i ritmi produttivi necessari ai prezzi richiesti da Apple.

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Non possiamo dimenticare infine che, per quanto ci possano apparire terribili, le condizioni dei lavoratori nella produzione elettronica cinese sono tutto sommato migliori rispetto a quelle di molti loro compatrioti. Una verità nota, che tuttavia non dev'essere una scusa per sorvolare sulla questione. L'ultima parte del problema siamo noi, che come consumatori vogliamo beni a buon mercato da cambiare frequentemente.

Nell'insieme il sistema finora ha funzionato, e il prezzo da pagare non ci è sembrato particolarmente rilevante. Forse perché non era visibile: negli ultimi anni tuttavia sempre più consumatori hanno acquistato consapevolezza, e proprio pochi giorni fa vi abbiamo raccontato di FairPhone, il primo smartphone etico. Chissà che tra qualche anno anche iPhone, Galaxy, Xperia e altri lo saranno.