Scienza italiana per l'auto elettrica: supercondensatori al grafene entro 5 anni

Un team di scienziati quasi tutti italiani ha trovato il modo di realizzare supercondensatori al grafene da integrare nella carrozzeria.

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a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

Entro cinque anni le auto elettriche potranno avere supercondensatori integrati nella carrozzeria; la loro repentina scarica può fornire l'energia necessaria per l'accelerazione, e questo di riflesso permetterebbe di usare meno batterie agli ioni di litio. Ci sta lavorando il professor Nunzio Motta presso la Queensland University of Technology (QUT), a Brisbane in Australia.

A prevedere un'applicazione commerciale entro cinque anni è stato Marco Notarianni, PhD presso la QUT e dottorando proprio con il professor Motta. "La tecnologia è molto semplice", conferma Motta a Tom's Hardware, "se si trova chi è interessato. Anzi, c'è già chi, come Volvo, sta lavorando a qualcosa di simile - anche se non con il nostro stesso materiale".

Nunzio Motta QUT

Nunzio Motta

Ecco, il prof. Motta ci tiene a sottolineare che la sua ricerca non è l'unica sui supercondensatori; ma è convinto che il suo progetto abbia buone possibilità di spuntarla sui concorrenti. In estrema sintesi, si tratta di due fogli di grafene tra i quali è collocato uno strato di nanotubi di carbonio forniti dalla Rice University; si viene così a costituire un supercondensatore con una grande potenza ma sottile e leggero, che si potrebbe appunto integrare nelle carrozzeria dell'auto.

I supercondensatori sarebbero responsabili dell'accelerazione. "Serve una grande quantità di energia in un tempo molto rapido", aggiunge il prof. Motta, "e le batterie aglio ioni di litio non sono adatte a fornire questo grandissima quantità di energia in tempi rapidi. È necessario mettere molte batterie in parallelo, e questo aumenta il peso della vettura".  Per la ricarica si potrebbe tranquillamente sfruttare lo stesso concetto già usato oggi della frenata attiva. "Il nostro vantaggio è che la procedura di produzione è estremamente semplice", spiega il docente laureato a Roma nel 1981.

"Pensiamo che, essendo semplice, si possa scalare facilmente. Non ci dovrebbero essere grossi problemi", afferma Motta, pur consapevole che è necessario sviluppare un metodo di produzione più adatto alla produzione di massa.

L'auto elettrica con questa tecnologia finirebbe per costare solo poco di più, o anche lo stesso prezzo attuale. Le batterie agli ioni di litio infatti sono molto care, e montandone meno sull'auto si potrebbe andare a compensare il costo dei supercondensatori e della nuova elettronica necessaria per usarli. All'inizio, comunque, ci potrebbe essere un piccolo sovraprezzo.

In un futuro più remoto, poi, si spera che i supercondensatori possano persino sostituire completamente le batterie agli ioni di litio. "Si tratta di trovare il materiale giusto" spiega il prof. Motta, "comunque le batterie hanno fatto passi da gigante negli ultimi anni, quindi ci sono buone speranze di trovare la soluzione".

Nunzio Motta si è laureato nel 1981 all'Università la Sapienza di Roma, titolo a cui si aggiunse un dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1986. Ha lavorato come ricercatore in due diversi atenei romani, sempre in Fisica dei Materiali, e lavora presso l'università di Brisbane dal 2006 circa - dove è da poco sempre stato nominato professore. Si occupa di ricerche in ambito di nanotecnologie e nuovi materiali.

Il team di questo progetto è composto in gran parte da italiani, come il citato Marco Notarianni. Non è un caso, perché da un lato Motta ha ottimi contatti per trovare studenti italiani con cui lavorare, ma dall'altro questi sono preferibili "perché hanno una cultura sicuramente superiore rispetto a quella dei dottorandi di altre parti del mondo", confessa il prof. Motta alla fine dell'intervista. "L'università italiana fino alla laurea è sicuramente d'eccellenza, poi purtroppo comincia a scadere quando si parla di ricerca e d'introduzione alla ricerca". Una storia già nota purtroppo: formiamo grandi scienziati ma poi non abbiamo dove farli lavorare, e lasciamo che sia qualcun altro a pagarli e a far fruttare i loro studi.