Il colosso di Mountain View può tirare un sospiro di sollievo dopo la decisione del giudice federale Amit Mehta, che ha sostanzialmente lasciato intatto l'impero di ricerca online di Google nonostante le accuse di monopolio.
La sentenza di 230 pagine rappresenta una vittoria quasi completa per l'azienda, che potrà continuare a versare miliardi di dollari ad Apple e altri partner per mantenere la sua posizione dominante nei motori di ricerca. Il verdetto ha deluso profondamente il Dipartimento di Giustizia americano, che aveva chiesto misure ben più drastiche per spezzare quello che considera un monopolio illegale consolidato negli anni.
La vera sorpresa della decisione risiede nella motivazione principale addotta da Mehta per giustificare la sua clemenza: l'avvento dell'intelligenza artificiale generativa avrebbe completamente trasformato il panorama competitivo rispetto al 2020, quando il caso venne originariamente intentato.
Il giudice sostiene che testimoni e esperti hanno confermato come l'IA rappresenti oggi una minaccia concreta al dominio tradizionale di Google nelle ricerche online, rendendo meno necessarie le misure punitive inizialmente previste.
"L'emergere dell'IA generativa ha cambiato il corso di questo caso", ha scritto Mehta nella sua sentenza. Secondo il magistrato, mentre durante il processo originale nessun testimone aveva identificato l'IA come una minaccia imminente, nelle udienze successive la questione è diventata centrale, trasformando il dibattito da una semplice regolamentazione della concorrenza tra motori di ricerca a una riflessione più ampia sul futuro del settore.
Cosa cambia davvero per gli utenti
Le uniche concessioni imposte a Google riguardano la condivisione limitata di alcuni dati con i "concorrenti qualificati" e l'obbligo di sottostare a sei anni di supervisione regolatoria.
L'azienda dovrà fornire accesso agli indici di ricerca e ai dati di interazione degli utenti, ma non ai preziosi dati pubblicitari che rappresentano il cuore del suo modello di business. Come spiega Adam Kovacevich, CEO della no-profit Chamber of Progress ed ex dipendente Google, è come se l'azienda dovesse condividere gli "ingredienti" ma non le "ricette segrete".
La decisione ha scatenato le ire dei gruppi antitrust, che considerano la sentenza un fallimento clamoroso. Nidhi Hegde, direttrice esecutiva dell'American Economic Liberties Project, ha utilizzato una metafora tagliente per descrivere la sua delusione: "Non si condanna qualcuno per aver rapinato una banca facendogli scrivere un biglietto di ringraziamento per il bottino".
I miliardi continueranno a scorrere
La reazione dei mercati finanziari ha confermato quanto favorevole sia stata la sentenza per Google: le azioni dell'azienda sono schizzate dell'8% nelle contrattazioni after-hours, mentre quelle di Apple hanno guadagnato il 2,5%. Un entusiasmo compatibile con i flussi di denaro miliardari tra le due società potranno continuare indisturbati.
Nel 2021, Google ha versato oltre 26 miliardi di dollari ad altre aziende per garantirsi la posizione di motore di ricerca predefinito sui loro dispositivi. Apple da sola ha incassato tra i 18 e i 20 miliardi di dollari nel 2020, rappresentando circa un quarto dei suoi profitti annuali. Anche Mozilla, che riceve "soli" 400 milioni di dollari, dipende criticamente da questi pagamenti per la sopravvivenza del browser Firefox.
Un futuro incerto tra ricorsi e stagnazione
Il giudice Mehta ha giustificato la sua riluttanza a interrompere questi pagamenti citando i "danni devastanti" che ne deriverebbero per i partner distributivi e, di conseguenza, per i consumatori. Tuttavia, gli esperti di diritto digitale come Mitch Stoltz della Electronic Frontier Foundation sono scettici sui benefici reali per gli utenti: "Gli utenti si troveranno sostanzialmente nella stessa posizione di prima".
Mentre il Dipartimento di Giustizia valuterà probabilmente un ricorso in appello, l'industria tecnologica si trova a dover riconsiderare i propri equilibri in un'era dominata dall'intelligenza artificiale. La decisione di Mehta potrebbe rappresentare un precedente importante per futuri casi antitrust, stabilendo che l'innovazione tecnologica può essere un fattore determinante nel valutare la necessità di interventi regolativi severi.