Dante Alighieri, 5 lezioni su come gestire i villain

La scrittura di Dante Alighieri ha ancora molto da dire e da insegnare, anche a chi scrive storie moderne

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a cura di Alberto Costantini

Nota del curatore. Che c’azzecca un articolo su Dante in Retrocult? Tanto per cominciare non è il primo, e anche quelli precedenti sono del mirabile Alberto Costantini. E poi, se questa è “la rubrica di Tom's Hardware dedicata alla Fantascienza e al Fantastico”, vorrei ben vedere che non ci entri a buon diritto la Divina Commedia.

Ma non è solo questione di diritti, perché le lezioni di Dante non sono dirette solo ai dannati. Sono lezioni per chi legge e per chi scrive storie, per chi guarda film e li fa. Non è dantesca, dunque, la vicenda di Thanos negli ultimi film MCU .. nel senso che non è all’altezza. Al cattivo di turno si permette di perpetrare nelle proprie bugie, di crederci fino all’ultimo, e infine gli si concede una fine dignitosa; due volte. Inaccettabile, per uno che andava sbattuto in qualche girone puzzolente senza tante cerimonie.

Nelle storie di oggi, non è dantesco il modo in cui si trattano ladri e traditori, che o vengono uccisi troppo in fretta e tutto sommato con pietà, oppure vengono in qualche modo benedetti da un’immeritata redenzione.

Pare che nel castigare i cattivi Hollywood non abbia voluto (o saputo, chissà) fare proprie le lezioni del Sommo. Tranne che in poche occasioni, spesso in qualche modo legate a questioni dantesche - vedi la fine del capo nazista in Indiana Jones e i predatori dell’Arca Perduta. Ma anche lì, alla fine, è un castigo da una botta e via, mica la dannazione eterna.

Già, ma Hollywood avrebbe dovuto cercare di essere più dantesca? Forse no, ma sicuramente, nel leggere e guardare storie, noi possiamo godere di queste lezioni. La prossima volta che vi troverete a guardare un film, nel momento in cui il cattivo affronta l’inevitabile sconfitta, forse vi tornerà in mente l’articolo di oggi.

Buona lettura e alla settimana prossima!

Valerio Porcu

Alberto Costantini

Classe 1953, Alberto è laureato in Lettere Antiche e fino al 2016 è stato insegnante nei licei. È autore di diversi saggi, soprattutto storici, e romanzi tra cui Terre accanto (Premio Urania 2002), Stella Cadente (Premio Urania 2005), Le astronavi di CesareL'undicesima persecuzione. Dalle numerose conferenze e dagli articoli di divulgazione, ha tratto dei mini-saggi, alcuni dei quali inerenti ai temi di Retrocult, come Dante e il Capitano Kirk, Quando la realtà inganna, Parlare di sé, parlando d'altro. Il suo ultimo romanzo è L’Eresia del Multiverso. (Amazon)

Lezione n. 1: pane al pane, vino al vino, e corna a corna

Dante non guardava la televisione. Fra le tante incertezze della sua biografia, questo almeno è sicuro. Pertanto, fra le tante disgrazie della sua vita, gli venne risparmiato il triste compianto di uomini e donne che raccontano come e perché hanno piantato la moglie o il marito.

Non risulta inoltre che seguisse le complicate geometrie matrimoniali di Beautiful, né che fischiettasse le canzoni dei Pooh o di Battisti. Questo non toglie però che anche ai suoi tempi, anzi, direi soprattutto ai suoi tempi, il 90% delle grandi storie d’amore si intrecciava sì fra mariti e mogli, ma quelli di qualcun altro. Ed erano, allora come oggi, le storie che piacevano di più al pubblico.

Solo che qui, signori miei, siamo all’Inferno, canto V per la precisione, e all’inferno - lo dice proprio in esordio il Procuratore Capo della Repubblica, il diavolo Minosse dalla lunga coda - non si raccontano bugie e non si narrano storie più o meno avvincenti. Spogliati dei loro abiti di scena, del loro fascino, della loro fama immortale, eroi ed eroine si abbassano fino a terra, nel caso specifico addirittura sottoterra, senza più nulla addosso, nemmeno il loro corpo.

E qui, nel vestibolo del secondo cerchio, fanno i conti con la coscienza: la loro, ma anche quella di Dante.

“Lui era così dolce, io ero così bella, mio marito, ah, sapessi mio marito…” no, signori miei, non attacca: qui il vecchio giochino che ha incantato i vostri affezionatissimi lettori non funziona proprio. Qui niente “belli e dannati” come tanti divi del rock e stelline del cinema, ma dannati e basta, come l’idraulico che se la fa con la moglie del droghiere quando va a riparargli il lavandino, perché l’Inferno è uno dei pochi posti dove veramente “La legge è uguale per tutti”.

Ed è questo che sconvolge Dante.

Certo, Paolo, Francesca, l’amore che dura anche dopo la morte, i due che si tengono teneramente per mano in un posto dove solitamente ci si morde l’un l’altro, si scalcia, si sgomita, tutto molto romantico; ma per giustificare la colpa non basta l’elevatezza del sentimento.

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Possiamo anche ricordare che il Sommo Poeta aveva già cominciato a piangere, prima ancora di incontrare i due cognati, e precisamente quando aveva visto la lunga fila dei lussuriosi, simile a uno stormo di gru, che fendeva l’aria lanciando al cielo nero i suoi lai. Per capire la situazione poetica che si presenta quando Virgilio gli elenca i personaggi additandoli uno a uno, io mi immagino come ci sentiremmo se ritrovassimo all’Inferno i protagonisti dei romanzi che ci hanno tenuti svegli fino alle ore piccole, le dive che ci hanno fatto sognare con i loro amori impossibili, le canzoni d’amore su cui abbiamo sospirato con la morosa, qualche volta anche da soli.

Che bello… ma ecco che qualcuno ci chiude il libro sotto il naso o solleva la puntina del giradischi e scuotendoci dice: “ok, fratello, tutto questo è meraviglioso, ma qua fuori c’è un tizio che insiste a dire che gli sembra un adulterio bello e buono. Che gli devo rispondere?”

E Dante, di fronte a questa constatazione, ne soffre più degli altri, perché a lui quelle storie di Ginevra e Lancillotto, di Re Artù e dei suoi avventurosi cavalieri, di Didone ed Enea, di Tristano e Isotta, piacevano proprio, piacevano da morire. I morti per passione erano i suoi eroi; non solo, ma per quella passione si sono giocati pure l’Eternità. Ne valeva veramente la pena, cari i miei Paolo e Francesca?

Tutta letteratura, si dirà, e a leggere - o scrivere - di letteratura mica si fa peccato.

Giusto.

L’importante però è ricordarsene, ricordarsi che appunto è letteratura, non confondere la fantasia con la realtà, non pretendere di trasferire le grandi storie d’amore che ci hanno appassionato nella vita di tutti i giorni. Oltre all’inevitabile delusione rapportando l’immensità del sogno alla modestia della realtà, e al rischio del ridicolo sempre in agguato, il risveglio potrebbe essere traumatico, come ha sperimentato la povera Francesca e come qui sperimenta, a modo suo, pure il nostro Dante.

Il quale singhiozza e infine sviene.

Sì, ma lui almeno esce vivo da quell’avventura, un’avventura con cui sapeva di dover prima o poi fare i conti, se è vero, come dice Boccaccio, che fu “in onne etade innamorato”, e che aveva passato gli anni della giovinezza a scrivere poesie d’amore.

Il cerchio si chiude idealmente sui prati fioriti dell’Eden, quando incontra la sua Donna, una corrispondenza sottilmente rimarcata dall’interrogazione “che pense?”, ossia “cosa pensi?”, che si ritrova soltanto qui e nel XXXI canto del Purgatorio, rivolta rispettivamente da Virgilio e Beatrice.

Ma perché non citare così di sfuggita anche quella brava donna di Cunizza da Romano, IX canto del Paradiso? Sì, proprio lei, la sorella del terribile Ezzelino, così influenzata fin dalla nascita dal pianeta Venere che, giuravano le cronache medievali, avrebbe considerato un grave torto e segno di palese maleducazione da parte sua non ricambiare l’amore di un giovanotto che gliel’avesse chiesto con la dovuta maniera. Insomma, non era una cattiva ragazza, solo un po’ “vivace” diremmo adesso, ma, al contrario di Francesca, lei visse abbastanza a lungo per capire che amare non vuol dire necessariamente rinunciare a usare il cervello, e che la misura del vero amore sta nella vera carità.

Una lezione che, purtroppo, i cento spiriti svolazzanti sotto la volta buia del cielo dei lussuriosi non hanno appreso in tempo.

Lezione numero 2: il denaro pubblico

Chissà se Dante ha veramente voluto vendicarsi di chi l’aveva accusato di baratteria, inventandosi un singolare e atroce castigo per questa categoria di dannati, quello di essere perpetuamente immersi nella pece bollente, con il sovrappiù di una banda di diavoli burloni, il cui compito è dare la caccia ai furbastri che fanno la cresta fuori della superficie, così come l’avevano fatta in vita sul denaro pubblico.

I barattieri, nonostante il nome strano, un po’ ruspante, sono una specie ben nota e tutt’altro che in via d’estinzione. Avete presente quei maneggioni che ti prendono da parte e ti sussurrano “beh, ne posso parlare con qualcuno che ha le mani in pasta; certo, non gratis, ovvio”, oppure quei politici che con un tratto di penna trasformano una zona agricola in area residenziale e così, come diceva appunto Dante “del no per li denar vi si fa ita” ossia un no diventa sì con una mazzetta. Chissà se la bolgia “mirabilmente oscura” allude veramente alle trame oscure dei tangentari di allora; mi piace pensare che la pece che li ricopre simboleggi anche la prodigiosa facilità con cui i fiorini gli restavano appiccicati.

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E mi piace da matti che Dante, dopo aver fatto rimare la parola pece con “vece” e con “fece” usi pégola, il termine veneto. Sì, perché il Padre della lingua nazionale non disdegnava affatto di servirsi di termini presi da altre zone d’Italia. E qui pegola ci sta diabolicamente bene, perché già dal suono evoca pratiche poco chiare, richiama il nostro impegolarsi, e anche la pegola simbolo di sfortuna nera.

Bene, cari i nostri barattieri, vi credevate tanto furbi, da vivi, eh? Adesso provate a usare la vostra scaltrezza per sfuggire alle grinfie, anzi, ai “raffi”, gli uncini di questi diavoli specializzati nella pesca del dannato lesso.

E comincia la gara di astuzia fra la selvaggina umana e i demoniaci falchi.

Può un uomo vincere un astuzia un diavolo?

Nella fantasia popolare, quello che non riesce al dottissimo Faust, il Faust di Marlowe almeno, riesce talvolta a qualche astuto contadino, come nella celebre novella di Machiavelli Belfagor l’Arcidiavolo. I barattieri ci provano pure loro: se non sono intelligenti, per lo meno come intendiamo noi l’intelligenza, di sicuro sono furbi e sleali, quello sì. Ciampolo di Navarra ne è l’esempio classico: catturato dai diavoli, promette di far emergere un buon numero di suoi compagni di pena lanciando il segnale convenuto del “cessato pericolo”. Ma basta che i diavoli si girino un istante, e l’astuto ex funzionario regio si tuffa nella bollente pece e si salva dal paventato squartamento.

La rabbia dei maldestri guardiani diventa autodistruttiva, e i diavoli Calcabrina e Cagnazzo si azzuffano, dimenticandosi che le leggi della fisica valgono anche nel profondo dell’Inferno, almeno dell’inferno di Dante; e soprattutto scordano che non è opportuno perdere il controllo delle ali mentre si sta sorvolando una palude di pece bollente. Risultato: un bagno caldo, anzi, bollente, le ali che non riescono a far riprendere il volo, la richiesta urgente di soccorso…

E mentre gli altri diavoli sono impegnati a trarre d’impaccio i loro maldestri compagni, i due poeti, “taciti, soli, sanza compagnia”, sgattaiolano via da quella congrega di pasticcioni impastrocchiati.

Lezione numero 3: giù le mani dalla roba degli altri

Sicuramente ai tempi di Dante non capitava quello che è successo a me alcuni anni fa, ossia di ritrovarmi il bancomat clonato, con spese varie effettuate in Transilvania. Quando poi mi hanno spiegato la tecnica usata dai ladri per impadronirsi dei miei dati, e quindi dei miei soldi, sono rimasto sbalordito dall’ingegno dimostrato da quei furfanti. È quello che pensiamo tutti quando abbiamo a che fare con truffatori e ladri: “ma perché non applicano la loro intelligenza e la loro astuzia a qualche affare onesto?” E invece, sembra che certa gente provi più gusto a guadagnare dieci rubando, che dodici lavorando.

Ma la Giustizia attende al varco anche loro.

Siate semplici come colombe e cauti come serpenti, ammonisce il Vangelo. Il serpente è infatti un antichissimo simbolo di sapienza, ma anche l’animale più astuto del Paradiso Terrestre, tanto da ingannare i primi uomini che, se crediamo alla Scrittura, erano poco meno che perfetti.

Non è dunque un caso se Dante immagina dei serpenti come custodi e strumenti di tormento nella bolgia dei ladri: del resto, nelle rappresentazioni dell’Inferno, difficilmente mancano questi subdoli animali; penso a Giotto, ma mi viene in mente anche il quasi contemporaneo Giacomino da Verona, che nel suo robusto dialetto veneto-medievale scriveva:

Asai g’è là çó bisse, liguri, roschi e serpenti,vipere e basalischi e dragoni mordenti:agui plui ke rasuri taia l’ong[l]e e li denti,e tuto ’l tempo manja e sempr’ è famolenti.

Qui però Dante non si accoda a un horror dozzinale, ma ha nel suo repertorio il colpo di reni, lo scatto in avanti del vero campione: non si tratta infatti di semplici esecutori della pena, ma, udite udite, serpenti sono diventati i ladri stessi, che di tanto in tanto perdono la loro forma umana per assumere quella dei rettili, e quindi ritornare nuovamente uomini.

Dante qui sfida apertamente Ovidio, suo modello in molti punti del Poema sacro, e lo dice a chiare lettere:

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio;ché se quello in serpente e quella in fonteconverte poetando, io non lo 'nvidio;ché due nature mai a fronte a frontenon trasmutò sì ch'amendue le formea cambiar lor matera fosser pronte

Il poeta romano propone una Metamorfosi? Troppo poco, mio buon inquilino del bel castello, dove vivono eternamente gli “spiriti magni” del Primo Cerchio (per la cronaca, canto IV dell’Inferno) no, dicevo, non basta: io farò una doppia metamorfosivoilà! uomini in serpenti e contemporaneamente serpenti in uomini, e magari anche uomini ridotti in cenere e dalla cenere ricostruiti, come la mitica Fenice.

Non c’è che dire, Dante è l’esatto contrario della modestia, dimostrandosi talvolta temerario fino all’incoscienza, eppure è capace di compiere il miracolo e superare il suo modello. “Tristo è quell’allievo che non supera il maestro” diceva Leonardo, e questo è un insegnamento che Dante lascia anche a noi aspiranti scrittori: se proprio vuoi imitare qualcuno, almeno prenditi un modello bello alto e sforzati di raggiungerlo, come suggeriva Machiavelli per il suo Principe: non è infatti per colpire il cielo che l’arciere scaglia la freccia verso l’alto, ma per arrivare più lontano.

Tornando ai nostri ladri, la ragione di questo contrappasso è abbastanza evidente: i ladri tolgono i beni agli uomini, sottraendo ai poveri le risorse necessarie per vivere e defraudando i lavoratori di ciò che hanno ottenuto sacrificando la cosa più preziosa e irreparabile per un essere vivente: il tempo. In altre parole, i ladri non rubano alle persone solo “cose”, come dicono certi ingenui, ma pezzi di vita. Giustamente, dunque, a loro verrà tolto quello che li rende uomini: la loro stessa struttura fisica, che si rimodella in una da rettile. E aggiungiamo un particolare perfido: le flessuose bisce legano strettamente nelle loro spire quelle mani, un tempo così svelte a sottrarre.

Pertanto, signori ladri, preparatevi, nell’aldilà, ad essere tormentati da animali più furbi di voi, e concentrate tutte le vostre energie nel tentativo – vano - di sfuggirli.

Lezione n.4: mai scherzare con un imbecille, perché potrebbe prenderti sul serio

Si può essere messi al rogo solo per una battuta?

Non sto alludendo ai tanti infelici che si sono giocati la carriera o un’amicizia importante per l’insano gusto di apparire spiritosi, parlo proprio di una piazza gremita, di una bella catasta di legna, di fiamme vere, di autentiche ustioni, di non metaforica riduzione in cenere.

È la storia di Griffolino, maestro alchimista, che un giorno… ma lasciamo la parola a Dante…

Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco:"I' mi saprei levar per l'aere a volo";e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,volle ch'i' li mostrassi l'arte; e soloperch'io nol feci Dedalo, mi feceardere a tal che l'avea per figliuolo

Il pratica, lui dice al nobile Albero da Siena: “lo sai che sarei capace di volare?” Ovviamente scherzava: a quel tempo sarebbe stato forse tecnicamente possibile realizzare un aliante o un pallone aerostatico, ma non risulta che nessuno ci avesse ancora provato, e sicuramente non era quella l’intenzione del povero Griffolino.

Era uno scherzo, dannazione, una battuta come un’altra, fatta così, tanto per riderci sopra. Come poteva immaginare che Albero l’avrebbe preso sul serio?

Ma quello aveva “senno poco”, e insisteva, insisteva; sembra quasi di sentirlo: “ma non hai detto che sei capace di volare? Perché non mi fai vedere e poi me lo insegni? Dai, ci conosciamo da tanto tempo! Insomma, basta: adesso ti alzi in volo o giuro che…” e visto che l’altro evidentemente era refrattario ad accontentarlo, si rivolse al Vescovo di Siena, o forse all’Inquisitore, di cui si vociferava fosse figlio, accusandolo di eresia e negromanzia.

così ebbe termine la carriera di Griffolino, indagatore delle scienze occulte, che morì per uno scherzo e finì all’inferno, ma non fra gli eretici, bensì, giustamente, nella bolgia che accoglie falsari e alchimisti insieme, ricoperti di scabbia e pieni di croste che grattano via furiosamente con le unghie.

Anche qui, come altrove, Dante parla di cose che conosce: non aveva egli stesso una controversa fama di mezzo-scienziato e mezzo-stregone?

Del resto, a quei tempi l’alchimia era una cosa seria, e libri che trattavano questa disciplina erano attribuiti a celebri personaggi come Sant’Alberto Magno, sapiente e appunto santo. Insomma, quando si proponeva scopi nobili e non tirava in ballo entità diaboliche, l’alchimia era perfettamente lecita; il guaio era che l’arte di trasformare metalli vili in oro portava facilmente a falsificare le monete, attività, anche allora, decisamente illegale.

Falsari e alchimisti, dunque, affratellati nell’arte di modificare la natura a proprio vantaggio, di evocare e mettere in moto con la forza della loro intelligenza entità smisurate che poi sono incapaci di controllare, apprendisti stregoni manipolatori dell’universo, e insieme miserabili falsatori di titoli di Stato e di monete.

Non vi suona un po’ famigliare?

Lezione numero 5: stare attenti dove si mettono i piedi

Riepiloghiamo. Siamo nel fondo ultimo dell’Inferno, più in basso del basso del basso: dopo di qui, non si può far altro che risalire, ed è quello che Dante farà al termine con la sua avventurosa arrampicata aggrappato al corpo villoso di Lucifero.

Sarà che l’epoca in cui visse Dante si stava avviando alla cosiddetta “piccola era glaciale” e le gelate erano frequenti, ma il freddo che descrive il Poeta è così realistico da far quasi pensare che, in qualche momento della sua vita, magari quegli anni bui di cui poco o nulla si sa, il Nostro avesse visitato le regioni polari, con la banchisa spessa sotto i piedi, il gelo che ti taglia le orecchie, il viso che perde sensibilità, la fatica di avanzare anche di un solo passo...

Ed ecco una distesa di teste umane disseminate sul pack, a rivelare l’orrore nascosto sotto la coltre bianca dell’ultimo lago infernale, il Cocito: anime, anime dannate di traditori immerse sino alle spalle nel ghiaccio.

Come un novello Robert Scott verso il Polo Sud, Dante avanza tra le raffiche di vento, quando casualmente – ma sarà proprio un caso? – il suo piede si scontra con la testa di uno dei disgraziati dai visi “cagnazzi” di freddo. Un bel calcione in pieno muso, insomma. La vittima gli lancia una serie di comprensibili maledizioni, dopo di che si lascia sfuggire quella parola: Montaperti.

A noi non dice molto, ma quella battaglia combattuta quarant’anni prima bruciava ancora nel cuore di ogni fiorentino, soprattutto guelfo. Ne abbiamo trovata una testimonianza nel celebre incontro con Farinata (canto X), ma qui c’è una differenza: Manente degli Uberti detto Farinata era un avversario, un nemico forse, ma era anche un vero fiorentino, a suo modo persino un patriota, quantunque di fede ghibellina, che aveva difeso “a viso aperto” la sua città.

Qui invece c’è Bocca, Bocca degli Abati. il traditore che, a quanto si raccontava, avrebbe reciso il braccio all’alfiere dei fiorentini, provocandone la fuga disordinata, la strage, e il fiotto di sangue che fece l’Arbia colorata in rosso. Già essere costretti a combattere con dei concittadini del partito avverso è triste, ma che il tuo camerata all’improvviso ti accoltelli alla schiena, questo no.

Quarant’anni sono passati, due generazioni di quei tempi, eppure era come se fosse successo il giorno prima. Gli odi politici sono fatti così: pensiamo che sono trascorsi quasi 76 anni dal settembre 1943, il settembre delle scelte irrevocabili, della guerra civile, dei partigiani e dei fascisti, eppure è come se fosse storia di ieri. Oppure gli anni di piombo, se vogliamo.

Dante vuole la conferma che il destino (ma sarà stato solo il destino?) ha guidato il suo piede vendicatore, ma il traditore stavolta non ci sta a scoprirsi, come l’astuto capitano Guido da Montefeltro che nella bolgia dei consiglieri di frode aveva proposto il celebre sofisma:

ma però che già mai di questo fondonon tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,sanza tema d'infamia ti rispondo.

Qui però Bocca sa bene che Dante è vivo, e si chiude in un silenzio totale; e allora il nostro eroe è costretto a fare qualcosa che non aveva ancora fatto, e per cui non sembra provare ripugnanza: sottoporre a tortura l’anima, strappandole ciocche di capelli. Probabilmente è la scena più bestiale del suo viaggio: ma, come si diceva al tempo della guerra civile, pietà l’è morta.

Bocca non cede: cavami pure tutti i capelli che ho in capo, schiacciami col tuo peso, dice, ma io non parlo.

È un altro a farlo al posto suo, e da buon traditore lo tradisce. Sì, è confermato, è proprio lui, ormai non ci sono più dubbi.

E allora Bocca, in una sorta di rabbiosa chiamata a correo, rivela il nome dell’imprudente chiacchierone nonché dei suoi compagni di pena: traditori della patria e del partito, degli amici e degli ospiti, infine - il più orrendo di tutti i peccati che un uomo possa compiere - dei benefattori.

Dante altrove può impietosirsi, non capire, immedesimarsi; qui, e forse solo qui, veramente pietà l’è morta.

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