Il recupero dati è spesso possibile in una varietà di scenari comuni, ad esempio dopo una cancellazione accidentale o un crash del sistema, grazie a software specializzati o all’intervento di professionisti. Tuttavia, esistono situazioni in cui anche i migliori strumenti e tecnici non possono riportare indietro le informazioni perdute. In queste circostanze estreme, i dati sono andati definitivamente.
Di seguito analizziamo i principali casi (su diversi dispositivi e contesti tecnologici) in cui il recupero dei dati risulta impossibile, spiegando in termini semplici il perché. Scopriremo anche perché, in questi scenari, nemmeno le soluzioni di data recovery più avanzate riescono a salvare i file perduti.
I dati sovrascritti sono mai recuperabili?
Una delle cause più comuni (e meno risolvibili) di perdita permanente di dati è la sovrascrittura. Cosa significa? Quando su un supporto (che sia un hard disk, un SSD o altro) si scrivono nuovi dati sopra a spazio precedentemente occupato da vecchi file, questi ultimi vengono fisicamente sostituiti. In altre parole, il bitstream originale viene rimpiazzato da nuovi bit. Il risultato è che le informazioni precedenti non esistono più su quel supporto, nemmeno in forma frammentata, rendendo impossibile accedervi in seguito.
In passato, alcune teorie sostenevano che fosse possibile, con strumentazioni avanzatissime (es. microscopi elettronici), leggere tracce residue dei dati sovrascritti. Nella pratica odierna però non ci sono prove concrete di tali possibilità. In poche parole, i file sovrascritti non possono essere recuperati con nessuna tecnologia o attrezzatura di laboratorio. Questo vale per qualsiasi tipo di dispositivo: se un settore di memoria che conteneva i dati viene riutilizzato e riempito con altro, il contenuto precedente è perso per sempre. Ecco perché si raccomanda sempre, in caso di cancellazione accidentale, di evitare di salvare nuovi file sul disco interessato: finché lo spazio non viene riscritto, c’è speranza di recupero, ma dopo una sovrascrittura completa quella speranza svanisce.
Cosa può rendere impossibile il recupero dei dati da un hard disk?
Il recupero dati da un hard disk tradizionale può diventare impossibile in determinate circostanze, soprattutto quando si verificano danni fisici gravi o si ha a che fare con settori danneggiati in modo irreparabile. Gli HDD (hard disk drive) memorizzano le informazioni su dischi interni detti piatti, ricoperti da uno strato magnetico dove vengono scritti i dati attraverso l’azione delle testine.
Uno degli eventi più distruttivi che può compromettere definitivamente l’accesso ai file è il cosiddetto head crash. Questo fenomeno si verifica quando le testine, normalmente sospese a una distanza microscopica dai piatti in rotazione, entrano in contatto con la loro superficie. Il risultato è un graffio fisico che rimuove lo strato magnetico contenente le informazioni. In queste condizioni, anche i più sofisticati laboratori dotati di camera bianca non possono recuperare i dati da hard disk danneggiati: le informazioni distrutte fisicamente non sono più presenti, e quindi non esiste alcun contenuto da estrarre.
Anche in assenza di un head crash, i settori danneggiati rappresentano un’altra causa di perdita permanente. Ogni disco rigido è suddiviso in settori, che costituiscono le unità minime in cui vengono archiviati i dati. Quando uno di questi settori si deteriora al punto da diventare illeggibile, e il contenuto in esso memorizzato non è stato copiato in precedenza in un’area sicura del disco, le informazioni contenute risultano perse. I moderni dischi tentano spesso di riallocare i settori danneggiati, ma se il danneggiamento è improvviso o riguarda settori critici, nemmeno i migliori strumenti professionali sono in grado di ricostruire i dati originari.
Un’altra situazione particolarmente problematica riguarda la corruzione della logica di controllo o del firmware dell’hard disk. Quando il microcodice interno che governa le operazioni del disco si corrompe, il dispositivo può diventare del tutto irriconoscibile, impedendo qualsiasi tentativo di lettura. Sebbene in alcuni casi sia possibile ripristinare temporaneamente il funzionamento attraverso tecniche specialistiche, se la corruzione compromette elementi fondamentali per l’accesso ai dati, la recuperabilità dell’hard disk viene irrimediabilmente compromessa.
Infine, va considerata l’eventualità di una sovrascrittura accidentale. Anche su un hard disk, se i settori originari vengono riutilizzati per scrivere nuovi dati, quelli precedenti vengono eliminati a livello fisico. In questi casi non è tecnicamente possibile eseguire il recupero: i vecchi bit sono stati sostituiti e i file sovrascritti sono perduti definitivamente.
Perché il recupero dati da un SSD può fallire del tutto?
Gli SSD (unità a stato solido) hanno rivoluzionato lo storage con prestazioni elevate e assenza di parti meccaniche, ma introducono nuove sfide per il recupero dati. La più importante si chiama TRIM. Il comando TRIM, supportato da tutti gli SSD moderni e attivo di default nei sistemi operativi recenti, informa l’SSD di cancellare immediatamente le celle di memoria dei file che l’utente elimina. Ciò significa che, a differenza degli HDD in cui un file cancellato resta sul disco finché non viene sovrascritto, su un SSD con TRIM i dati vengono realmente eliminati subito.
Quando eliminiamo un file, il sistema operativo passa all’SSD l’istruzione TRIM indicante quali blocchi di memoria flash non servono più. L’SSD provvede in background ad azzerare tali celle, liberandole per future scritture. Dal punto di vista delle prestazioni, è ottimo; dal punto di vista del recupero dati, è un incubo. Infatti, dopo che il TRIM ha pulito i blocchi, nemmeno i software di recupero più avanzati trovano nulla da recuperare, perché i bit originali sono stati cancellati definitivamente (resi tutti zero). Spesso, provando a scansionare un SSD da cui sono stati cancellati file, i tool mostreranno magari i nomi dei file o i record vuoti (perché magari il file system ha ancora riferimenti temporanei), ma nel tentativo di recuperarli si scopre che il contenuto è assente – risultato: file corrotti o vuoti.
Oltre al TRIM, gli SSD hanno altre particolarità: implementano algoritmi di wear leveling (che spostano continuamente i dati per livellare l’usura delle celle) e garbage collection automatica. In pratica, anche senza un comando TRIM esplicito, l’SSD potrebbe ottimizzare la sua memoria in modo da cancellare blocchi non più usati. Ciò rende la finestra utile per il recupero ancora più stretta. Esistono scenari in cui il recupero dati su SSD può andare a buon fine – ad esempio se il TRIM non è supportato (vecchi OS o SSD collegato via USB che non inoltra il TRIM) oppure se la perdita è dovuta a un danneggiamento logico (es. tabella delle partizioni danneggiata) e non a cancellazione volontaria. Ma in generale, su un SSD moderno con TRIM attivo, un file cancellato è un file perso.
Un altro caso di impossibilità riguarda guasti elettronici o memoria completamente distrutta. Sebbene gli SSD non abbiano teste e piatti, possono comunque rompersi: ad esempio, un controller guasto può impedire l’accesso ai dati. I laboratori in questi casi a volte eseguono il chip-off, ossia rimuovono i chip di memoria NAND saldati e li leggono direttamente con apparecchiature dedicate. Se i chip NAND sono intatti, è spesso possibile estrarre i dati grezzi. Ma attenzione: molti SSD oggi cifrano automaticamente i dati contenuti (spesso in hardware, in modo trasparente per l’utente). Ciò implica che i dati letti direttamente dai chip risultano cifrati se non si dispone della chiave di decrittazione (che di solito è memorizzata nel controller stesso). Dunque, se un SSD è crittografato dal produttore o dall’utente e il controller si rompe irreparabilmente insieme alle informazioni di cifratura, anche avendo i chip integri i dati rimangono indecifrabili. In mancanza di quella chiave, siamo nel caso precedente: dati irrecuperabili in quanto inaccessibili.
Quali ostacoli impediscono il recupero di dati da smartphone e tablet?
Il recupero dati da smartphone e tablet rappresenta una sfida particolarmente complessa, perché questi dispositivi combinano tecnologie a stato solido con avanzati sistemi di cifratura dei dati. A differenza degli hard disk tradizionali, gli smartphone utilizzano memorie flash come eMMC o UFS, le stesse impiegate negli SSD. Ciò significa che, una volta cancellato un file, soprattutto se il dispositivo supporta il comando TRIM o pratiche simili di ottimizzazione automatica, la probabilità di recuperarlo diminuisce drasticamente.
Uno degli ostacoli principali è rappresentato dai danni fisici gravi al dispositivo. In caso di cadute, urti, infiltrazioni liquide o incendi, può accadere che la scheda madre del telefono si danneggi in modo irreversibile, rendendo impossibile l’accesso alla memoria interna. Quando questo accade, i laboratori di recupero più attrezzati ricorrono alla tecnica del chip-off, che consiste nell’asportare fisicamente il chip di memoria dal circuito del telefono per leggerne direttamente il contenuto. Tuttavia, questo metodo è efficace solo se la memoria non è cifrata oppure se si dispone delle chiavi necessarie per la decodifica.
La cifratura dei dati su smartphone è oggi abilitata per impostazione predefinita su quasi tutti i dispositivi moderni, siano essi Android o iOS. Questo significa che, anche se si riesce a estrarre la memoria interna, i dati risultano crittografati con algoritmi avanzati (spesso AES a 256 bit), che rendono i contenuti illeggibili senza la chiave corretta. Nei dispositivi Apple, ad esempio, la sicurezza è gestita da un componente chiamato Secure Enclave, che conserva la chiave di decifrazione ed è strettamente legato al processore del dispositivo. Se questo elemento viene danneggiato o se l’autenticazione non può essere ripristinata, i dati cifrati su iPhone risultano irrecuperabili.
Anche i dispositivi Android recenti integrano sistemi di sicurezza che rendono il recupero dati da smartphone cifrati estremamente difficile, se non impossibile. In molti casi, i dati sono legati a un PIN o a una password utente, e se questa informazione non è disponibile, non esiste alcuna procedura tecnica che permetta di accedere al contenuto della memoria. È importante sottolineare che nemmeno le forze dell’ordine, in mancanza di vulnerabilità software sfruttabili, riescono ad accedere ai dati cifrati in assenza di credenziali valide.
Un ulteriore fattore di criticità riguarda la perdita dei dati in seguito a un ripristino ai valori di fabbrica. Quando un utente resetta il proprio smartphone, il sistema operativo elimina anche le chiavi crittografiche che permettevano l’accesso ai dati memorizzati. Questo significa che i dati non vengono solo cancellati, ma resi completamente inaccessibili. Anche in questo caso, il contenuto della memoria continua a esistere in forma cifrata, ma è tecnicamente impossibile da decrittare.
In quali casi un server o un sistema RAID perde i dati definitivamente?
Il recupero dati da server o da un sistema RAID è generalmente considerato più affidabile rispetto a quello da supporti singoli, grazie alla presenza di meccanismi di ridondanza. Tuttavia, anche in questi contesti possono verificarsi condizioni estreme in cui la perdita dei dati è definitiva. La tecnologia RAID, sebbene progettata per aumentare la tolleranza ai guasti, non garantisce l’immunità assoluta da eventi critici che possono comprometterne il funzionamento e rendere inutilizzabile l’intero array.
Un esempio classico è il malfunzionamento simultaneo di più dischi in una configurazione RAID 5. Questo schema è progettato per resistere al guasto di un solo disco, grazie all’uso della parità distribuita. Tuttavia, se due o più unità si guastano nello stesso arco temporale, i dati distribuiti tra i dischi non possono più essere ricostruiti. In questi casi, anche il miglior software di recupero non è in grado di restituire file integri, poiché mancano fisicamente blocchi fondamentali del contenuto originario. Si tratta di un tipico caso in cui il recupero dati da RAID fallisce completamente, specialmente se i dischi danneggiati contenevano contemporaneamente sezioni diverse dello stesso file.
Un’altra situazione che può portare a una perdita totale riguarda i sistemi RAID 0, nei quali la distribuzione dei dati avviene senza alcuna forma di ridondanza. Qui, la rottura di un singolo disco rende immediatamente illeggibile l’intera struttura, poiché i dati sono suddivisi tra le unità in modo frammentato e senza copie di riserva. Pertanto, in assenza di backup, anche un solo guasto può comportare la perdita irreversibile delle informazioni.
Nel contesto dei server aziendali, la perdita dei dati può derivare anche da errori umani, come una riconfigurazione errata dell’array RAID, l’inizializzazione involontaria di un volume o la formattazione accidentale delle unità. In certi casi, queste operazioni sovrascrivono settori critici del disco, compromettendo non solo la struttura logica del file system, ma anche la possibilità di ricostruzione da parte dei laboratori di recupero. Il risultato è che, anche in presenza di hardware funzionante, l’accesso ai dati può risultare irrimediabilmente compromesso.
Un ulteriore rischio per la perdita definitiva di dati su server è rappresentato da eventi catastrofici, come incendi, allagamenti o guasti elettrici gravi che distruggono fisicamente i dischi o le apparecchiature. Se l’azienda non dispone di un piano di disaster recovery e di backup off-site, l’evento può causare l’eliminazione completa e permanente di dati critici. In questi scenari, non vi è possibilità concreta di intervento, poiché il supporto fisico è stato reso inutilizzabile in modo irreversibile.
Anche la corruzione massiva del file system può compromettere il recupero, specialmente se si verifica su volumi virtuali o all’interno di macchine virtuali. Quando la struttura logica che descrive l’organizzazione dei file viene distrutta, diventa estremamente difficile ricostruire i dati in modo coerente. Questo accade, ad esempio, quando l’array RAID ha operato per troppo tempo in modalità degradata, accumulando incoerenze non più correggibili. A peggiorare la situazione può intervenire anche la crittografia, che se danneggiata nei suoi metadati di accesso, rende impossibile decifrare le informazioni, anche se i file fossero tecnicamente intatti.
I dati eliminati dal cloud possono essere recuperati in qualche modo?
Il recupero dati dal cloud è un tema che suscita spesso false certezze tra gli utenti. L’idea diffusa è che, una volta caricati i propri file su servizi cloud come Google Drive, Dropbox, OneDrive o iCloud, questi siano al sicuro per sempre. In realtà, nonostante l’infrastruttura cloud sia progettata per garantire alta affidabilità, esistono circostanze in cui la perdita dei dati nel cloud può diventare definitiva e irreversibile.
Uno dei casi più frequenti si verifica quando un file viene eliminato volontariamente e successivamente cancellato anche dal cestino del servizio cloud. La maggior parte delle piattaforme, infatti, conserva i file eliminati in una cartella temporanea per un periodo limitato, variabile a seconda del provider e del piano sottoscritto. Superato questo intervallo di tempo, il file viene rimosso definitivamente dai server. In tale condizione, l’utente non ha più alcuna possibilità di accesso o di ripristino. A differenza del recupero dati da dispositivi fisici, nel cloud non esistono software in grado di “scansionare” lo spazio per ritrovare file perduti, poiché l’archiviazione è gestita in modo centralizzato e non direttamente accessibile.
Un altro scenario critico riguarda la chiusura dell’account cloud o la sua compromissione da parte di terzi. In caso di attacco informatico, ad esempio, un malintenzionato potrebbe accedere all’account dell’utente, eliminare o sovrascrivere i file e successivamente svuotare il cestino. Se ciò avviene senza che vi siano copie locali dei dati, e se l’intervento sul servizio non è tempestivo, i contenuti vengono cancellati dai server del provider e diventano tecnicamente irrecuperabili. È importante sottolineare che il recupero file eliminati dal cloud dipende totalmente dalla politica interna del servizio in questione: alcuni provider conservano backup interni solo per motivi di sicurezza o compliance aziendale, e nella maggior parte dei casi non rendono questi backup accessibili agli utenti.
Anche malfunzionamenti del sistema o errori da parte del provider possono causare la perdita di dati su cloud. Pur trattandosi di eventi rari, ci sono stati casi documentati in cui bug software, errori di configurazione o incidenti infrastrutturali hanno provocato la cancellazione accidentale di file. In tali circostanze, se il provider non dispone di un meccanismo di disaster recovery efficace o se l’incidente non rientra nelle politiche di responsabilità verso l’utente, i dati andati perduti non vengono ripristinati.
Un aspetto spesso sottovalutato è che, nel caso della cancellazione definitiva, nessun software di recupero dati tradizionale può intervenire su file persi dal cloud, poiché l’utente non ha accesso diretto al supporto fisico su cui i dati erano memorizzati. Questo è un punto cruciale: mentre su un hard disk locale si possono tentare analisi settoriali e recuperi forensi, nel cloud il controllo è nelle mani esclusivamente del provider. Se il file non è più disponibile nei backup interni e non è stato mantenuto in cache da un sistema di versionamento, il recupero è da considerarsi tecnicamente impossibile.
Per queste ragioni, è fondamentale comprendere che il cloud storage non è una soluzione infallibile. Sebbene offra ridondanza e accessibilità, non sostituisce una corretta politica di backup. La protezione dei dati nel cloud deve prevedere anche la creazione di copie locali o sincronizzate su più piattaforme, così da evitare che un singolo evento (che sia una cancellazione, un attacco o un errore tecnico) possa tradursi in una perdita definitiva. La sicurezza dei propri file, anche quando si usano servizi avanzati, resta in ultima analisi una responsabilità dell’utente.
Se i dati sono cifrati (ad esempio da ransomware), si possono recuperare senza la chiave?
Il recupero dati cifrati rappresenta uno dei casi più complessi e, nella maggior parte delle situazioni, tecnicamente irrisolvibili senza la chiave corretta. Questo vale sia per i dati protetti volontariamente da parte dell’utente tramite sistemi di crittografia legittima, sia per quelli colpiti da attacchi ransomware, nei quali la cifratura viene applicata in modo malevolo per estorcere un riscatto.
Nel caso della crittografia personale, ad esempio con strumenti come BitLocker su Windows, FileVault su macOS o VeraCrypt su sistemi multipiattaforma, i dati vengono protetti da algoritmi avanzati, generalmente basati su AES a 256 bit. Se l’utente dimentica la password o perde la chiave di recupero, i file diventano immediatamente inaccessibili. Questi algoritmi non presentano vulnerabilità note e sono progettati per resistere anche ad attacchi brute force prolungati. In altre parole, senza la chiave di accesso, i file cifrati sono inutilizzabili e, dal punto di vista tecnico, completamente irrecuperabili anche con l’aiuto di esperti. Nemmeno i produttori dei software, come Microsoft o Apple, possono fornire supporto in assenza delle credenziali originali. In questo contesto, il recupero dati da disco cifrato senza password è, nella pratica, impossibile.
La situazione diventa ancora più drammatica quando si parla di ransomware, ovvero di malware progettati per cifrare tutti i file presenti su un sistema e chiedere un riscatto in cambio della chiave di decifrazione. I ransomware moderni utilizzano spesso un doppio livello di cifratura: una chiave AES univoca per ciascun file o sessione, cifrata a sua volta con una chiave pubblica RSA controllata dagli autori dell’attacco. Senza la corrispondente chiave privata, detenuta esclusivamente dagli aggressori, non esiste alcun metodo efficace per decifrare i file colpiti da ransomware. La crittografia adottata è, di norma, estremamente robusta e implementata senza errori evidenti, rendendo inutilizzabili i dati anche a chi possiede competenze tecniche avanzate. In alcuni casi particolari, la comunità di cybersecurity riesce a trovare falle negli algoritmi o ottiene le chiavi dopo l’arresto di un gruppo criminale, ma si tratta di eccezioni e non della regola.
Purtroppo, quando si cade vittima di un ransomware ben progettato e non si dispone di un backup dei dati precedente all’infezione, la perdita è pressoché certa. Aziende e utenti privati si ritrovano così in una situazione in cui i file sono ancora presenti sul disco, ma sono completamente inaccessibili senza la chiave di decrittazione. Anche le società specializzate in recupero dati non sono in grado di fornire soluzioni se il ransomware non presenta vulnerabilità note o se non esistono strumenti di decrittazione già disponibili.
Va ricordato che, sebbene in alcuni casi il pagamento del riscatto possa portare alla restituzione della chiave, questa pratica è fortemente sconsigliata sia per motivi etici che di sicurezza. Non vi è alcuna garanzia che i criminali mantengano la promessa, e spesso il pagamento non fa altro che finanziare ulteriori attività illecite. Da un punto di vista tecnico, quindi, il recupero file cifrati da ransomware senza chiave è un’operazione destinata al fallimento nella quasi totalità dei casi.
Quali software usare per recuperare i dati?
Quando ci si trova di fronte a una perdita accidentale di file, il primo passo, prima ancora di rivolgersi a un laboratorio specializzato, è tentare un recupero dati tramite software dedicati. In ambito domestico e professionale esistono strumenti affidabili e consolidati, pensati non solo per tentare il ripristino dei file, ma anche per prevenirne la perdita attraverso sistemi di backup automatizzati. Tra i nomi più noti e apprezzati in questo settore troviamo EaseUS ToDo Backup, Acronis Cyber Protect e Paragon Backup & Recovery.
EaseUS ToDo Backup
EaseUS ToDo Backup è una soluzione intuitiva e molto diffusa per il recupero e backup dei dati. Offre funzionalità di clonazione disco, creazione di immagini di sistema e backup incrementali o differenziali. La sua interfaccia semplice lo rende adatto anche a utenti non esperti, mentre le versioni professionali garantiscono funzioni più avanzate, come la pianificazione automatica dei salvataggi o la protezione dei backup con crittografia. EaseUS è particolarmente utile quando si cerca di proteggere un intero sistema da eventuali guasti hardware o attacchi ransomware, fornendo la possibilità di un rapido ripristino su nuovi dispositivi.
Acronis Cyber Protect
Acronis Cyber Protect rappresenta una soluzione di livello enterprise, pensata per garantire sicurezza e recupero dei dati in ambienti critici. Oltre alle classiche funzioni di backup completo, Acronis integra difese attive contro malware, ransomware e vulnerabilità del sistema. Il suo punto di forza è l’integrazione tra backup e protezione attiva, che permette di bloccare un attacco informatico prima ancora che possa compromettere i file. È particolarmente indicato per aziende, liberi professionisti e realtà che gestiscono dati sensibili o infrastrutture complesse. L’elevata affidabilità nella creazione di immagini di sistema e ripristini bare-metal lo rende un riferimento nel settore.
Paragon Backup & Recovery
Paragon Backup & Recovery è un altro strumento consolidato per la protezione dei dati e il recupero di file cancellati o compromessi. Offre la possibilità di eseguire backup selettivi, completi o incrementali, con una gestione flessibile dello spazio su disco. La sua funzione di “restore rapido” consente di ripristinare singoli file o intere partizioni, riducendo i tempi di inattività. Paragon è apprezzato per la solidità del motore di backup e per l’accuratezza nella gestione delle partizioni e dei volumi di sistema. È adatto sia all’uso personale che in contesti aziendali di piccole e medie dimensioni.