La Grande Barriera Corallina australiana sta attraversando una delle crisi più drammatiche della sua storia recente, con un declino della copertura corallina che ha raggiunto livelli mai registrati in quasi quattro decenni di monitoraggio scientifico. L'Australian Institute of Marine Science (AIMS) ha documentato come sia la sezione settentrionale che quella meridionale di questo ecosistema lungo 2.300 chilometri abbiano subito il fenomeno di sbiancamento corallino più esteso mai osservato. Il quadro che emerge dalle ultime ricerche dipinge un futuro incerto per quella che viene spesso definita la più grande struttura vivente del pianeta.
Un ecosistema al limite della sopravvivenza
Tra agosto 2024 e maggio 2025, gli scienziati hanno analizzato la salute di 124 barriere coralline, rilevando che lo stress termico provocato dai cambiamenti climatici rappresenta la principale minaccia per questi organismi marini. Le acque tropicali insolitamente calde hanno innescato il sesto evento di sbiancamento di massa dal 2016, un fenomeno che si verifica quando i coralli espellono le alghe simbiotiche dai loro tessuti a causa delle temperature elevate.
Il meccanismo è tanto semplice quanto devastante: quando la temperatura dell’acqua supera di 1 °C il limite termico dei coralli per due mesi consecutivi, questi organismi rischiano la morte. Con un aumento di 2 °C, la soglia di sopravvivenza si riduce a un solo mese.
La battaglia contro le stelle marine
Oltre al riscaldamento globale, la Grande Barriera deve fronteggiare altri nemici altrettanto insidiosi. I cicloni tropicali e le invasioni di stelle marine corona di spine hanno devastato intere sezioni dell’ecosistema. Questi echinodermi, pur essendo originari della zona, hanno visto crescere le proprie popolazioni in modo esponenziale dagli anni '60, probabilmente a causa dei nutrienti agricoli che raggiungono il mare.
Il governo australiano ha avviato un programma di controllo che ha portato all’eliminazione di oltre 50.000 esemplari attraverso iniezioni di aceto o bile bovina. L’iniziativa ha dato risultati incoraggianti: nel 2025 non sono stati rilevati focolai attivi, potenziali o gravi nelle barriere centrali.
Quando la natura non fa più in tempo
La specie corallina più colpita è risultata essere l’Acropora, particolarmente vulnerabile allo stress termico e preferita dalle stelle marine. Come spiega il dottor Mike Emslie, responsabile delle ricerche AIMS: “Questi coralli crescono più rapidamente degli altri, ma sono anche i primi a morire”. La capacità di ripresa di questi organismi, seppur dimostrata in passato, richiede anni di condizioni ambientali stabili e una riproduzione efficace.
Per la prima volta nella storia documentata, quest’anno sia la Grande Barriera che la barriera corallina di Ningaloo, sulla costa occidentale australiana, hanno subito contemporaneamente lo sbiancamento. Un evento senza precedenti che evidenzia l’estensione geografica della crisi in corso.
L'architetto del mare in pericolo
I coralli sono spesso definiti gli “architetti del mare” per la loro capacità di costruire strutture complesse che ospitano circa il 25% di tutte le specie marine. La loro importanza ecologica va ben oltre i confini australiani, influenzando gli equilibri oceanici a livello globale. Richard Leck del WWF ha descritto la barriera come un “ecosistema sotto stress incredibile”, avvertendo che alcune barriere coralline nel mondo hanno già superato il punto di non ritorno.
L’UNESCO, che ha inserito la Grande Barriera tra i patrimoni dell’umanità oltre 40 anni fa, oggi la considera “in pericolo” a causa del riscaldamento degli oceani e dell’inquinamento. Gli scienziati temono che questo ecosistema unico possa raggiungere un punto critico, in cui i coralli non riescano più a riprendersi tra un evento catastrofico e l’altro, condannando la barriera a un futuro “volatile” e imprevedibile.
La sfida ora consiste nel bilanciare gli sforzi di conservazione locale con azioni climatiche globali ambiziose e rapide, nella speranza che questo tesoro naturale possa continuare a dimostrare quella “capacità intrinseca di recupero” che finora l’ha salvato dall’estinzione definitiva.