La perdita di una persona cara rappresenta uno degli eventi più traumatici che l'essere umano possa sperimentare, lasciando cicatrici profonde che si riflettono non solo sulla dimensione emotiva ma anche su quella fisica. Recenti ricerche scientifiche stanno ora dimostrando che il modo in cui elaboriamo il lutto può avere conseguenze molto più durature di quanto immaginassimo, arrivando a influenzare la nostra stessa aspettativa di vita. Un nuovo studio condotto in Danimarca rivela come il dolore prolungato possa trasformarsi in un fattore di rischio per la mortalità, aprendo interrogativi importanti sul supporto che la società dovrebbe offrire a chi attraversa questi momenti difficili.
Quando il dolore diventa un fattore di rischio
I ricercatori dell'Università di Aarhus, guidati da Mette Kjærgaard Nielsen, hanno seguito per un decennio oltre 1700 persone che avevano perso un familiare o un partner affetto da una malattia terminale. L'approccio metodologico dello studio si è rivelato particolarmente innovativo: invece di limitarsi ai primi anni successivi alla perdita, come avveniva nelle ricerche precedenti, il team ha monitorato i partecipanti attraverso questionari somministrati prima del decesso del congiunto, sei mesi dopo e tre anni dopo, per poi analizzare i loro registri medici a distanza di dieci anni.
I risultati emersi dall'analisi dei dati sono stati tanto chiari quanto preoccupanti. Le persone che avevano sperimentato livelli persistentemente elevati di dolore mostravano un tasso di mortalità superiore dell'88% rispetto a coloro che erano riusciti a elaborare il lutto in modo più sereno. Questo dato acquisisce particolare rilevanza se consideriamo che solo il 17% dei partecipanti presentava condizioni mediche preesistenti all'inizio dello studio.
I meccanismi nascosti del lutto prolungato
Andreas Maercker dell'Università di Zurigo, esperto non coinvolto nella ricerca, ha commentato i risultati sottolineando come esista un detto secondo cui "il lutto spezza i cuori". Questa espressione popolare, che trova riscontro anche nella cultura italiana dove si parla di "morire di crepacuore", sembra trovare ora una base scientifica solida. Il dolore intenso e prolungato sottopone l'organismo a uno stress continuo che può accelerare processi degenerativi e compromettere il sistema immunitario.
Lo studio ha identificato quattro diverse traiettorie del dolore: 670 persone hanno mostrato livelli persistentemente bassi di afflizione, mentre 107 hanno sperimentato un dolore intenso e duraturo. I restanti partecipanti hanno attraversato fasi di dolore in declino o ritardato, manifestatosi cioè tempo dopo la perdita effettiva. Chi apparteneva al gruppo ad alto dolore tendeva a evitare sistematicamente tutto ciò che potesse ricordare la malattia o la morte della persona cara, rimanendo intrappolato in un senso di confusione riguardo al proprio ruolo nella vita.
Implicazioni per il sistema sanitario
La scoperta di questo legame tra elaborazione del lutto e mortalità apre scenari importanti per le politiche sanitarie. Se il dolore prolungato può effettivamente accorciare la vita, diventa essenziale ripensare l'approccio al supporto psicologico per chi affronta una perdita. Attualmente, in Italia come in molti altri paesi, l'assistenza psicologica nel lutto è spesso limitata nel tempo e nelle risorse, concentrandosi principalmente sui primi mesi successivi alla perdita.
I meccanismi attraverso cui il lutto intenso influisce sulla salute fisica sono molteplici. Oltre allo stress psicofisiologico, le persone profondamente addolorate tendono a modificare drasticamente le proprie abitudini di vita: saltano i pasti, riducono l'attività fisica, trascurano le cure mediche e spesso sviluppano comportamenti autodistruttivi. Questo circolo vizioso può accelerare l'insorgenza di patologie cardiovascolari, compromettere il sistema immunitario e favorire lo sviluppo di disturbi metabolici.
Verso un nuovo approccio al supporto
La ricerca danese suggerisce che identificare precocemente le persone a rischio di lutto complicato potrebbe salvare vite umane. Nielsen e il suo team sottolineano come sia necessario offrire supporto aggiuntivo specifico a chi mostra segni di elaborazione problematica del dolore, indipendentemente dalla presenza di condizioni mediche preesistenti. Questo approccio preventivo potrebbe rappresentare un investimento importante non solo dal punto di vista umano, ma anche economico per i sistemi sanitari.
La sfida ora consiste nel tradurre questi risultati in protocolli clinici concreti, sviluppando strumenti di screening che permettano di identificare tempestivamente chi potrebbe beneficiare di interventi di supporto più intensivi e prolungati nel tempo. Il lutto, da evento privato e spesso sottovalutato dal punto di vista medico, emerge così come una vera e propria questione di sanità pubblica che merita attenzione e risorse adeguate.