Il glioblastoma resta una delle sfide più difficili della neurochirurgia moderna: non tanto per la rimozione della massa principale, quanto per la capacità delle cellule maligne di infiltrarsi nei tessuti circostanti senza essere rilevate. Anche quando chirurgia e radioterapia eliminano il tumore visibile, le cellule residue riaccendono quasi sempre la malattia. Non sorprende quindi che la sopravvivenza media dopo la diagnosi sia di appena 15 mesi.
Un approccio innovativo arriva da Jennifer Munson del Fralin Biomedical Research Institute della Virginia Tech. La ricercatrice ha sviluppato una tecnica che non si limita a fotografare lo stato attuale del tumore, ma ne predice l’espansione futura. Il metodo combina immagini da risonanza magnetica e algoritmi capaci di simulare il movimento dei fluidi nei tessuti. «Se non riesci a trovare le cellule tumorali, non puoi eliminarle con chirurgia, radiazioni o farmaci», spiega Munson.
I limiti degli strumenti attuali
Oggi i chirurghi si affidano soprattutto a scansioni radiologiche e coloranti fluorescenti. Questi strumenti, però, illuminano solo la massa principale e non penetrano abbastanza in profondità. Le cellule che migrano lontano dal tumore sfuggono così alla diagnosi, alimentando il rischio di recidiva. La ricerca di Munson punta a colmare proprio questa lacuna.
La svolta nasce dallo studio del flusso interstiziale, ossia il movimento dei fluidi tra le cellule. Munson ha osservato che la velocità e la direzione di questo flusso cambiano a seconda delle patologie e, nel caso del glioblastoma, rivelano pattern riconoscibili. Flussi più rapidi corrispondono a un’invasione più aggressiva, mentre movimenti caotici indicano minore rischio.
Verso una chirurgia di precisione
Il dato più sorprendente è che i fluidi creano percorsi preferenziali, quasi come corsi d’acqua che guidano le cellule tumorali verso nuovi tessuti. In questo modo diventa possibile costruire mappe predittive dell’invasione.
Queste mappe potrebbero fornire ai chirurghi indicazioni preziose: quali zone del cervello richiedono interventi più mirati e dove, invece, conviene preservare tessuti sani. «Il nostro metodo può segnalare le aree con maggiori probabilità di contenere cellule tumorali», spiega Munson, che insegna anche Ingegneria Biomedica alla Virginia Tech.
Dal laboratorio alla clinica
Dalla ricerca è nata Cairina, una startup che punta a trasformare queste scoperte in strumenti clinici concreti. L’obiettivo è sviluppare mappe personalizzate dell’invasione tumorale per aiutare neurochirurghi e oncologi a pianificare trattamenti più efficaci.
Il progetto ha già ricevuto fondi dal National Cancer Institute e da altre organizzazioni, segno dell’interesse internazionale verso un approccio che potrebbe rivoluzionare la lotta contro il glioblastoma. L’auspicio è che queste mappe predittive possano finalmente migliorare le prospettive di sopravvivenza di fronte a una delle forme di cancro più aggressive.