Xiaomi: smentite le ultime accuse di censura sui dispositivi

A entrare nel mirino questa volta è Xiaomi, accusata di censurare termini sensibili relativi al governo cinese e a questioni geopolitiche.

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a cura di Francesca Fenaroli

Dopo il ban a Huawei, si sono recente sollevate nuove accuse contro a un produttore di smartphone proveniente dalla Cina. A entrare nel mirino questa volta è Xiaomi, accusata da un report del dipartimento informatico del governo della Lituania di censurare, all'interno dei propri device, termini sensibili relativi al governo cinese e a questioni geopolitiche riguardanti le aree del Tibet, di Hong Kong e Taiwan. La dose era stata rincarata direttamente dal Ministero della difesa lituano, che aveva addirittura intimato i cittadini a non acquistare dispositivi Xiaomi (ma anche Huawei e OnePlus) e addirittura gettare quelli già in possesso.

Nello specifico, le accuse mosse a Xiaomi prendevano il via da un'analisi effettuata su uno Xiaomi Mi 10T con a bordo MIUI 12.0.10 Global, una ROM destinata quindi a un mercato internazionale. Secondo il report, questo software sarebbe stato modificato ad hoc per occultare i termini censurati, ma sarebbe stato possibile attivare la censura da remoto in qualsiasi momento grazie a un file di blacklisting chiamato “MiAdBlacklistConfig”, periodicamente scaricato e aggiornato dalle applicazioni preinstallate da Xiaomi sul dispositivo.

La piattaforma di developer XDA ha deciso pertanto di mettere alla prova questi capi d'accusa, che sarebbero risultati ovviamente gravissimi nel caso in cui si fossero rivelati veritieri. D'altro canto Xiaomi ha già rischiato la stessa sorte di Huawei con un ban emanato dagli Stati Uniti e poi ritirato. Per smentire l'analisi del governo lituano, XDA ha risolto il problema alla radice utilizzando come dispositivo campione uno Xiaomi Mi 11 Ultra con una custom ROM non globale, bensì basata sulla MIUI China, a partire dalla quale vengono sviluppate tutte le altre versioni del software.

Una volta sbloccati i permessi di root, XDA ha individuato in effetti il file “MiAdBlacklistConfig”, un database contenente più di 2000 voci. Tuttavia la sola natura di queste voci è bastata per smentire le accuse provenienti dalla Lituania ancora prima di fare ulteriori verifiche. Tra i termini contenuti nel file figurano infatti alcuni termini relativi a Cina, Taiwan e altre nazioni, ma anche chiavi di ricerca correlate ad argomenti espliciti, pornografici o semplicemente illegali, come:

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  • download videos

Non mancano nomi di brand, tra cui la stessa Xiaomi:

  • Xiaomi
  • Mi
  • Samsung
  • OnePlus

Anche senza essere esperti di sicurezza informatica, è facile intuire che sarebbe estremamente controproducente da parte di Xiaomi censurare agli utenti il suo stesso sito Web, mi.com. Ma allora, scartate le prospettive più orwelliane, a cosa serve il file “MiAdBlacklistConfig”? Semplicemente, a controllare la natura delle pubblicità dei dispositivi. Xiaomi è d'altronde famosa per la quantità di bloatware che infestava i device costringendo gli utenti a visualizzare fastidiosi annunci pubblicitari: il file “MiAdBlacklistConfig” contiene un codice che interagisce con lo Xiaomi Global Ad Software Development Kit, che si occupa appunto delle notifiche push dei contenuti sponsorizzati.

Almeno in questo caso, la censura del governo cinese non c'entra: Xiaomi ha solo implementato, attraverso un sistema di blacklisting, un modo per arginare le pubblicità più controverse o sconvenienti per gli utenti.

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