In un'epoca d'oro per i videogiochi, la fine degli anni '90, il genere degli strategici in tempo reale era dominato da una filosofia precisa: costruire, raccogliere, produrre in massa e travolgere il nemico con la forza dei numeri.
Poi, nel 1998, Microsoft e FASA Interactive decisero di provare a fare qualcosa di diverso. Un gioco che rallentava il ritmo, eliminava la costruzione di basi e chiedeva al giocatore non di essere un generale di una classica orda, ma un comandante responsabile di poche, preziose, vite d'acciaio. Quel gioco era MechCommander.
Raccontare MechCommander, per me, significa ritornare a vivere un universo narrativo decisamente molto profondo, quello di BattleTech. L'avventura ci proiettava nel 31° secolo, nel cuore della Sfera Interna, dove casate nobiliari feudali si davano battaglia a bordo di macchine da guerra bipedi alte decine di metri: i BattleMech.
La campagna ci gettava nel mezzo dell'Operazione Bulldog, un contrattacco su larga scala contro i Clan, una società di guerrieri tecnologicamente avanzati che avevano invaso lo spazio conosciuto. Al comando della Compagnia Zulu, il nostro compito era liberare il pianeta Port Arthur dal Clan Smoke Jaguar, una missione che suonava quasi suicida.
I 'Mech che pilotavamo, dal tozzo Commando al leggendario Mad Cat, non erano unità generiche, ma macchine con una storia e un ruolo precisi, amate dai fan del gioco da tavolo da cui tutto era tratto (e che ora, sul piano videoludico, sopravvive solo grazie a Battletech).
A quei tempi si può scrivere che il vero colpo di genio di MechCommander fu ridefinire le aspettative di noi giocatori fin dal primo istante. Avviando la prima missione, la domanda non era "dove costruisco la mia base?", ma "come posso sopravvivere con quello che ho?".
Non c'era raccolta di risorse, non c'erano fabbriche. Si veniva schierati con un numeri specifico di 'Mech e un pugno di veicoli di supporto, con l'ordine di completare l'obiettivo e tornare a casa con meno danni possibili. Questo spostava radicalmente l'attenzione dalla macro-gestione economica alla micro-gestione tattica.
Ogni passo, ogni colpo, ogni decisione, quindi, aveva un'importanza non da poco. I BattleMech non erano agili carri armati, ma giganti pesanti e goffi, e il gioco te lo faceva sentire in ogni momento.
Avevano un'inerzia tangibile, impiegavano tempo per ruotare il torso, e la loro velocità era un fattore strategico cruciale. Il combattimento diventava una sinfonia di distruzione calcolata, dove gestire il surriscaldamento delle armi, il consumo di munizioni e l'integrità della corazza era fondamentale. Era un po' come giocare a scacchi in tempo reale, dove il posizionamento e l'uso intelligente del terreno erano tutto per riuscire ad avere la meglio.
Se il campo di battaglia era il cuore tattico del gioco, la vera chicca di MechCommander emergeva tra una missione e l'altra. L'esperienza non si esauriva con la schermata di vittoria; quello era solo l'inizio. Il ciclo di gioco si sviluppava in una fase gestionale profonda e significativa, che creava un legame quasi affettivo con la nostra compagnia.
Questo perché le nostre unità non erano automi senza volto, ma uomini e donne con nomi, callsign e, soprattutto, abilità che miglioravano con l'esperienza. Vedere il proprio pilota preferito diventare un asso era una soddisfazione immensa, ma questo spaventava anche, perché la morte era permanente. Perdere un MechWarrior veterano in una missione andata male era come una pugnalata al cuore, una perdita che si ripercuoteva per il resto della campagna.
A conti fatti non stavi perdendo un'unità, stavi perdendo un compagno d'arme virtuale in cui avevi investito tempo ed emozioni. Oggi qualcosa di simile lo si può vedere, per esempio, su XCOM o State of Decay.
Questa sensazione di responsabilità era amplificata anche nel Mech Bay, la nostra officina e santuario. Qui, ogni singolo 'Mech della compagnia poteva essere personalizzato fin nei minimi dettagli.
Potevamo rimuovere un laser per aggiungere più corazza, o sacrificare dissipatori di calore per montare un cannone Gauss più potente. Ogni scelta era un compromesso tra potenza di fuoco, resistenza e velocità.
Tra l'altro, alla fine di ogni missione, avevamo la possibilità di recuperare i 'Mech nemici abbattuti sul campo e questo trasformava il combattimento stesso. L'obiettivo non era sempre quindi: annientare il nemico, ma farlo nel modo più "pulito" possibile.
Un 'Mech messo fuori combattimento con un colpo preciso alla cabina di pilotaggio poteva essere recuperato quasi intatto. Riuscire a catturare un potente 'Mech dei Clan, ripararlo e schierarlo nella missione successiva lo vedevamo sempre il vero trofeo.
Il suo seguito, MechCommander 2, migliorò la formula con una grafica completamente 3D e una maggiore libertà, ma mantenne intatto quello spirito unico. La passione della community è stata tale che, quando Microsoft ha rilasciato il codice sorgente del secondo capitolo, il gioco è rinato a nuova vita, continuando a essere giocato e moddato ancora oggi.
Per noi MechCommander è stato molto più di un gioco di robottoni. Era un gioco che aveva rispetto l'intelligenza del giocatore, offrendo un sistema complesso ma leggibile, dove ogni scelta, dalla configurazione di un'arma alla traiettoria di un passo, poteva fare la differenza tra una vittoria eroica e una catastrofica sconfitta.
Oggi viviamo in un'epoca in cui molti giochi strategici tendono a semplificare le meccaniche, di conseguenza riscoprire la sua eleganza tattica significa ritrovare un'esperienza che non è invecchiata di un giorno.