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Un franchise di successo può davvero morire?

Da Metal Gear Solid a Dead Space, analizziamo come e perché i franchise di successo finiscono nel dimenticatoio.

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Avatar di Lorenzo Ardeni

a cura di Lorenzo Ardeni

Pubblicato il 04/08/2022 alle 10:00

Da Metal Gear a Splinter Cell, fino al più casual e amatissimo Guitar Hero, l’industria ci ha dimostrato fin troppo spesso che alcuni dei franchise più amati dai giocatori possono finire nel dimenticatoio e morire nel tempo. Non ci abitueremo mai a vedere sparire nel nulla le nostre serie preferite e allo stesso modo non smetteremo di chiederci perché i grandi publisher decidono di sfruttare le loro IP male o andando controcorrente alle aspettative dei giocatori.

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Nel corso degli anni, sin dagli albori del medium, abbiamo visto una quantità spropositata di serie che sono progressivamente sparite dalle nostre console, talvolta in modi piuttosto discutibili e scatenando la rabbia - repressa nel tempo - di milioni di appassionati. Pensiamo a Konami che, dopo il tramortito The Phantom Pain, ha deciso di trasformare il franchise di Metal Gear Solid in una slot machine esclusiva per le sale giochi giapponesi, con tanto di un incredibile remake visivo dell’amatissimo Snake Eater che è stato rilegato unicamente al gioco d’azzardo.

Escludendo questo caso estremo, sono davvero molti gli esempi che potremmo citare. Giunti a un punto di estrema modernizzazione e affermazione del medium del videogioco come parte integrale delle nostre vite e della cultura mondiale, cerchiamo di comprendere le motivazioni per cui un franchise, oggi, muore nel tempo. Tuttavia, riconosciamo anche che la realtà dei fatti è più complessa di quanto può sembrare: non è sempre vero che le serie videoludiche spariscono e basta, senza un’apparente motivo. Di fatti, nella maggior parte dei casi ciò che realmente avviene è un processo di evoluzione del franchise relativo alle modalità in cui il publisher ritiene più consono utilizzarlo.

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Da Ubisoft ad Activision: case history dell'evoluzione di franchise

Ubisoft, per citare una case history emblematica, non ha ucciso Rayman ma ha semplicemente rielaborato la proprietà intellettuale facendola vertere sui Rabbids, più vicini a un pubblico più giovane. Il publisher canadese non prende di certo decisioni a caso, e sapeva benissimo che realizzare un platform tripla A sulla falsariga dei primi tre capitoli della serie di Rayman non aveva più molto senso. In seguito ad attente analisi di mercato - e più nello specifico, dei target di riferimento - hanno chiaramente capito che la mascotte creata da Michel Ancel non avrebbe avuto il futuro radioso su cui Ubisoft puntava.

Stesso discorso per Splinter Cell, dove il publisher ha compreso che rielaborarlo in chiave moderna, in un momento storico dove il free-to-play e il multiplayer online trainavano i trend del gaming, sarebbe stato a dir poco impossibile, se non controproducente. Dobbiamo quindi comprendere le motivazioni dei colossi che tessono le redini del settore e arrenderci alla consapevolezza che se un genere si appresta a diventare una nicchia, in relazione alle tendenze della maggioranza di utenti, il futuro di un franchise diviene incerto e il publisher deve per sua natura rielaborarlo.

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Il processo di evoluzione di una serie può così essere drastico e portare alla sua sparizione sul lungo termine, come la già citata saga di Metal Gear, ma in alcuni casi la metamorfosi è meno sentita e più studiata. È il caso di Rainbow Six o ancor di più Assassin’s Creed, dove le meccaniche e dinamiche di gioco subiscono cambiamenti man mano sempre più impattanti sul gameplay, arrivando ad oggi a presentarsi come un vero e proprio action RPG. Di fatti, è recente la notizia della cancellazione del progetto di Splinter Cell VR, che chiaramente non avrebbe raggiunto una fascia d'utenza abbastanza grande per gli standard di Ubisoft.

In altre situazioni, invece, i cambiamenti avvengono all’infuori del gameplay e trasformano i franchise in game-as-service con l’introduzione di battle pass e spesso la conseguente formula free-to-play. Pensateci: credete davvero che Warzone sarebbe potuto uscire nel 2011, quando gli amanti di Call of Duty impazzivano dietro la storia e il multiplayer di Modern Warfare 3? Come abbiamo già detto, sono le tendenze dei giocatori a stabilire il futuro di una serie, e non sarà mai quella nicchia che ha amato la campagna single player di un titolo pensato attorno al comparto multiplayer online a fare la differenza.

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La soggettività del concetto di "morte di un franchise"

In ogni caso, prendendo la serie di Call of Duty come più emblematico esempio, il concetto di “morte di un franchise” è puramente soggettivo. Una proprietà intellettuale non può morire e non cesserà mai di esistere, ma potrebbe essere sfruttata diversamente da come i suoi appassionati si potrebbero aspettare e quindi subire modifiche non apprezzate dai più. Non immaginate quante volte mi è capitato di parlare con amici e sentirli dire che “Call of Duty è morto” quando, dati alla mano, è una delle serie più redditizie al mondo. Da qui comprendiamo la soggettività del pensiero, che diventa una mera opinione e che varia in base all’esperienza e cultura del singolo utente.

Nintendo è esemplare in tal senso, perché dire che F-Zero, Earthbound e Star Fox siano serie morte è altrettanto opinabile quanto lo è con Call of Duty. Questi tre franchise, sebbene non abbiano un nuovo videogioco da tantissimi anni, vengono infatti ancora riproposti nelle librerie per Super Nintendo e Nintendo 64 su Switch. Per Earthbound vengono addirittura ancora creati nuovi prodotti di merchandise (anche in Italia, con il programma My Nintendo).

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Se non viene sviluppato un nuovo gioco di una particolare serie, non significa necessariamente che essa sia “morta”, ma che il publisher sta aspettando il momento giusto per rielaborare la proprietà intellettuale e riproporla a un pubblico con esperienze e aspettative completamente diverse rispetto a chi giocava quei titoli ai loro albori. Analizziamo il caso Star Fox Zero: uscito nel 2016 su Wii U, era l’ultimo capitolo principale della saga dopo Star Fox Assault su GameCube nel 2005. Dopo più di dieci anni, Nintendo non è riuscita a realizzare un titolo che sarebbe potuto piacere al pubblico, forse perché era troppo tardi per un’opera del genere, o magari perché troppo presto.

Tuttavia, a volte un publisher deve anche saper rischiare per comprendere in modo più concreto come il pubblico può reagire in relazione a un particolare franchise, per cui crediamo che la casistica di Star Fox Zero fosse piuttosto un tentativo coraggioso di riportare in auge la serie. In questo momento, è proprio Electronic Arts a cercar di far tornare sulle nostre console un franchise che non vedevamo da anni e che, di fatti, davamo per perso per sempre: il remake di Dead Space non è affatto un progetto scontato, ma anzi la conferma che nessuna serie può davvero morire.

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La decisione di tornare a puntare su un’esperienza single player (horror, peraltro) e sviluppare un remake piuttosto che un nuovo capitolo, dimostra come Electronic Arts abbia effettuato attenti studi e ponderato con grande minuzia i rischi e le opportunità di un titolo del genere. Il caso Dead Space è però quello che ci interessa maggiormente, perché se un colosso dal calibro di EA decide di tornare a puntare sul single player, vuol dire che qualcosa sta per cambiare nell’industria.

Dire che il multiplayer online, il free-to-play, il battle pass e i battle royale stiano per morire è chiaramente troppo azzardato. Tuttavia, Electronic Arts ha visto un futuro molto plausibile che noi possiamo solo teorizzare. Ma se EA ci crede, potrebbero farlo anche altri publisher. Per questo motivo, vi lasciamo con un consiglio, quasi una lettera d’amore perduta nel tempo: non smettete di credere nel ritorno della vostra serie preferita, perché non sapete quando potrà fare ritorno sulle vostre console.

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