La produttività aziendale non subisce contraccolpi dall'adozione del lavoro da remoto. È quanto emerge da uno studio della Banca d'Italia che ha analizzato l'impatto dello smart working su un campione rappresentativo di imprese italiane tra il 2019 e il 2023, periodo che ha visto l'esplosione di questa modalità lavorativa durante la pandemia da Covid-19. La ricerca, firmata da Gaetano Basso, Davide Dottori e Sara Formai, smentisce i timori di un deterioramento della performance delle imprese legato al lavoro da casa.
L'analisi arriva mentre molte aziende stanno cercando di riportare i lavoratori in ufficio: le ragioni sono molteplici e non si può mai escludere la variabile "capi medievali". Spesso e volentieri viene citata proprio una ipotetica maggiore produttività in ufficio, un dato che è già stato smentito da molti, e ora anche da Bankitalia. Certo, lo smart working è pur sempre lavoro e in quanto tale ci sono questioni di salute di cui tenere conto, ma non son quelle a informare le decisioni.
I dati della Banca d'Italia offrono elementi oggettivi per valutare una questione che ha diviso il mondo del management tra sostenitori del ritorno integrale in ufficio e promotori di modelli ibridi permanenti.
I ricercatori hanno esaminato metriche economiche chiave quali ricavi, input di lavoro misurato in ore lavorate e numero di dipendenti, composizione della forza lavoro, profitti, costi variabili e investimenti in tecnologie 4.0. Il risultato complessivo indica un effetto medio nullo su tutte queste variabili, sfatando l'idea che il lavoro da remoto rappresenti necessariamente un freno alla crescita aziendale. Tuttavia, questa lettura aggregata nasconde dinamiche più complesse e articolate a livello micro-economico.
La performance dipende infatti in modo determinante dalle caratteristiche organizzative preesistenti. In poche parole, sta meglio chi ha saputo organizzarsi bene, con sistemi di obiettivi e gestione dei risultati. In questi casi i lavoratori producono più di prima lavorando da casa (o altrove). Chi è invece nella situazione contraria, e gestisce il lavoro con strategie di controllo a vista, perde produttività.
Le aziende che già prima del 2020 avevano familiarità con accordi di lavoro flessibile e disponevano di infrastrutture digitali adeguate hanno saputo capitalizzare l'opportunità, migliorando in alcuni casi gli indicatori di efficienza. All'opposto, quelle che si erano mostrate più resistenti hanno subito contraccolpi, in parte attribuibili alla scarsa preparazione manageriale e alla mancanza di conoscenza degli strumenti normativi e organizzativi necessari per gestire team distribuiti.
Non sorprende che le realtà che hanno mantenuto politiche di smart working più generose dopo la fine dell'emergenza sanitaria siano quelle che hanno registrato i benefici maggiori. Questo suggerisce che l'efficacia del modello richiede un impegno strutturale, non episodico. Nel complesso, l'utilizzo del lavoro da remoto in Italia si è stabilizzato su livelli superiori rispetto al periodo pre-pandemico, pur essendo calato rispetto ai picchi raggiunti durante i lockdown.
Gli stessi autori riconoscono i limiti metodologici dello studio, legati alla finestra temporale analizzata e alla disponibilità di dati. Restano da esplorare impatti di lungo termine sul mercato del lavoro, sul welfare aziendale, sugli investimenti in capitale umano e sulle strategie di recruitment. Anche l'adozione di tecnologie avanzate e l'evoluzione delle pratiche manageriali richiedono ulteriori approfondimenti per comprendere come il lavoro da remoto stia ridisegnando le organizzazioni.
La ricerca della Banca d'Italia si inserisce in un quadro più ampio di studi sul fenomeno. Pochi giorni prima della sua pubblicazione, l'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha documentato una nuova crescita del lavoro da remoto nel 2025, dopo la contrazione del 2024. Tuttavia, emergono forti disparità dimensionali e settoriali: oltre la metà dei dipendenti delle grandi imprese utilizza lo smart working, mentre nelle piccole e medie imprese la diffusione continua a diminuire. La pubblica amministrazione registra invece un'inversione di tendenza positiva.
Questa polarizzazione solleva interrogativi sulla capacità del tessuto produttivo italiano, caratterizzato da un'alta percentuale di PMI, di trarre vantaggio competitivo da modelli organizzativi flessibili. Resta da capire se le piccole imprese manchino di risorse per implementare efficacemente lo smart working o se prevalgano resistenze culturali radicate. La risposta a questa domanda potrebbe determinare non solo la produttività futura, ma anche l'attrattività del sistema economico italiano per i talenti più qualificati, sempre più orientati verso modalità lavorative ibride.