Dieci anni dopo, Skyrim è ancora un luogo di profonde emozioni e memorabili avventure

A dieci anni dalla sua pubblicazione The Elder Scrolls V: Skyrim è ancora uno dei pilastri del genere dei giochi di ruolo occidentali: ecco perché

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a cura di Fabio Canonico

La prima volta nella quale mi sono approcciato a The Elder Scrolls V: Skyrim è stata poco dopo l'uscita, poco meno di dieci anni fa quindi. Lo installai, ci giocai per pochissime ore e poi, costretto da altri impedimenti, lo abbandonai, convinto che sarebbe stato solo per poco; invece, dovetti aspettare la riedizione su PlayStation 4 per tornare tra gli struggenti panorami della fredda regione di Tamriel, stavolta sì, dedicandogli quelle decine e decine di ore che meritava; ancora, l'ho riniziato giusto qualche giorno fa, su Xbox Series X, perché i caricamenti istantanei, i 60 frame al secondo e la possibilità di installare mod che per il mio attuale PC sarebbero insostenibili erano un richiamo troppo forte, per me che di esplorare un mondo fantasy a caso ho quasi sempre bisogno, in qualunque momento della mia vita videoludica.

E ho capito non solo che la colossale opera di Bethesda è ancora un capolavoro, quello lo sapevo già ed era anche abbastanza prevedibile, perché le produzioni di simile portata mai invecchiano, mai risultano vetuste; soprattutto, ho capito che da Skyrim è come se non fossi mai andato via. Tornare a esplorare luoghi affascinanti ed evocativi, rincontrare personaggi memorabili, rivivere memorabili momenti, persino la sequenza introduttiva più memata di sempre, non ha suscitato in me la sensazione della nostalgia, quanto piuttosto della familiarità. Skyrim è un mondo virtuale, certo, ma è un mondo che sottende tutta una serie di vibrazioni, emozioni e stati d'animo che nel momento in cui riaffiorano fanno incontrovertibilmente sentire di essere a casa. Perché la casa non è un luogo fisico, quanto piuttosto uno stato dell'animo nel quale si riesce a dare una forma, un nome e un ordine alle proprie emozioni: a sentirle, così, in maniera più intensa e profonda.

Chiedetelo, chiedete a chiunque abbia viaggiato in lungo e in largo per Skyrim cosa davvero l'abbia portato da Whiterun a Solitude, da Markrath a Riften, attraverso praterie accarezzate dal vento, montagne ammantate di neve e nuvole, fiumi impetuosi e cristallini, paludi mefitiche e asfissianti, foreste dai colori più disparati, tutti elementi di una natura potentissima e immanente. Nessuno, ne sono sicuro, vi risponderà che l'ha fatto per salvare la regione dalla minaccia draconica che su di essa incombeva: la trama, così classica, è del tutto accessoria, tra gli elementi che dovrebbero saldare il rapporto tra l'opera e il giocatore è il più irrilevante, al punto che finisce quasi con lo sparire totalmente, già dopo poche ore di gioco. Del fatto che si sia il Sangue di Drago, il Dovahkiin, ennesimo predestinato tirato in ballo da una narrazione persino prevedibile, nella sua progressione, importa davvero poco.

La risposta alla domanda sta nella inusitata potenza espressiva del gioco, capace di creare atmosfere uniche attraverso la commistione di molteplici elementi. La già citata natura, ovviamente, davvero poderosa, capace di esprimere paesaggi e scene di incredibile impatto (con qualche mod mirata, ancora di più, e al livello di produzioni contemporanee); la straordinariamente evocativa colonna sonora, che non si limita a descrivere quel momento o quell'altro, ma ad essi si lega in maniera imprescindibile, elevandone la memorabilità; l'avvolgente, incalzante, trascinante sensazione di avventura, dalla quale è impossibile liberarsi, perché tutto è costruito in sua funzione.

Ogni passo attraverso Skyrim non è accompagnato da, ma produce un appagamento prima sensoriale ed emotivo, poi anche ludico. Quanto dell'epica delle battaglie contro i draghi è convogliato dal tema, ormai storico, che le accompagna? Quanto tocca le corde dell'animo camminare per una frondosa foresta dai colori autunnali? Quanto è potente l'attrazione che esercita un luogo del quale si è sentito parlare ma ancora da scoprire, o scorto in lontananza, o nel quale ci si è imbattuti per puro caso?

È chiaro che sono questi elementi ricorrenti nel genere del gioco di ruolo occidentale, ma che in Skyrim funzionano eccezionalmente bene, perché eccezionale è il modo in cui sono confezionati e misurati. Pur avendo una mappa di grandissima estensione, il gioco non è affetto dall'irritante gigantismo di altri congeneri; pur contenendo una pletora di storie, di più o meno grande portata e dai molteplici toni, tiene sempre la narrazione un passo dietro rispetto alla libertà del giocatore; una libertà che viene ulteriormente alimentata da una ludica semplice, persino essenziale per i canoni moderni. Non sono elementi secondari questi, tutt'altro: sono quanto permette all'immersione di non rompersi praticamente mai, a differenza di quanto avviene in altri congeneri. Ed è quindi altrettanto chiaro che in un simile contesto tutto quello che si percepisce, che si sente, che si vive, è enormemente più emozionante e vivido.

Skyrim, in definitiva, è probabilmente la sublimazione del gioco di ruolo occidentale, per il modo in cui la totale libertà di esplorazione produce momenti, avventure e storie che non possono non rimanere conservati tra le più care memorie del giocatore, perché tanto intense dal punto di vista emotivo ed evocative da quello sensoriale. E nonostante siano ormai passati dieci anni dalla sua prima pubblicazione, nulla di tutto ciò è stato minimamente scalfito dal tempo.

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