La conversazione videoludica da social è preda di un mostro

Tra i social si nasconde un mostro capace di distruggere la conversazione sul videogioco, perché alimentarlo?

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a cura di Pietro Spina

Sarà forse colpa di questa ennesima, triste, estate orfana dell’E3, che non è riuscita a trovare conforto neanche tra le braccia di un buon Geoff che continua a sciorinare numeri di un successo clamoroso eppure incapace di generare l'entusiasmo di cui tutti sentiamo bisogno, ma ultimamente il discorso videoludico mi sembra sempre più aver perso la bussola, trovandosi a gravitare attorno alle reazioni del pubblico social piuttosto che al videogioco stesso. Esempi lampanti (e anche un po' tristi) si ritrovano alle reazioni al recente trailer di Return to Monkey Island o alla data di uscita di God of War Ragnarock, testimonianza di come il caldo afoso e la scarsa capacità di relazionarsi possano portare la gente a perdere la brocca.

Certo, probabilmente si fa sentre anche la mancanza di annunci di spessore in quantità, quelli a cui eravamo abituati pre-covid e che speravamo di riabbracciare quest’anno con questo assaggio di ritorno alla normalità che ha fatto ripartire eventi e fiere. Dopo tutto se PSY nella sua nuova hit That That dice letteralmente che “pandemic is over”, dovremmo fidarci: è il momento di tornare tutti ad affollare capannoni e anfiteatri alla ricerca di una postazione di gioco libera, per raccontare al mondo quanto sia bello secondo noi il codice preview su cui abbiamo pasticciato di corsa pensando all’appuntamento che ci attende 20 minuti più tardi, dall’altro lato del padiglione.

Chissà se e quando torneremo a rivivere questi momenti così caotici e sconnessi, ma al tempo stesso fondamentali per veicolare le nostre passioni. Il grosso evento esclusivo e/o la fiera internazionale sono ormai tra le poche situazioni in grado di creare il giusto stacco tra giornalista e lettore, tra esperto del settore e appassionato, in particolare quando i publisher vanno all-in e decidono di rivivere insieme in fasti dell’era PS360 per rovesciando sul palco esclusive come se fossero dinosauri di Exoprimal.

Perché in tutte le altre occasioni la capillarità dei sistemi di comunicazione e la velocità con cui è possibile spostare le news nell’etere, solitamente un grande vantaggio in senso assoluto, si sono abbattute sulle conversazioni facendo invecchiare tempo zero ogni contenuto, ogni video, ogni parola, buttando la palla dell’informazione al centro di un campo pieno di ragazzini che sui social vogliono solo fare gol e chi se ne importa chi ha portato il pallone - che tra l’altro non può neanche più offendersi e andarsene a casa.

Ogni concetto vissuto in prima persona da un inviato sul posto viene elaborato, digerito e ripresentato sul piatto dal primo chef videoludico di turno, intenzionato a spostare il dibattito su un altro palco - il proprio - perché tanto se non lo farà lui sicuramente lo farà qualcun altro, volando là dove nessun fair-use è giunto prima per giustificare l’utilizzo di asset, informazioni e pareri altrui in leggerezza.

Se questo succede sui contenuti in esclusiva o embargati, figuriamoci quando invece le informazioni sono più semplici e accessibili, come nel caso di un nuovo trailer o di un annuncio durante un non-E3 come quello vissuto quest’anno. Il numero di utenti che ogni volta commenta lanciandosi come uno zombie su l’ultimo sopravvissuto del villaggio fa impallidire quello delle orde di Days Gone, con cui però si condivide la brama di staccare anche solo un brandello di carne fresca per rimanere nel giro, in attesa del prossimo malcapitato e della prossima news.

Il problema delle orde però è che gli zombie si somigliano un po’ tutti, e dopo il quarto/quinto headshot non stai certo a guardare se uno avesse la camicia a righe o la maglietta azzurra. Allo stesso modo tutti i commentatori videoludici si trovano a rigurgitare le stesse informazioni allo stesso pubblico in una piazza affollata, in cui si lotta per attirare l’attenzione generale e non tornare a far parte di quello stesso pubblico che stai cercando faticosamente di conquistare.

L’eccesso critico, il grande entusiasmo, la lotta controcorrente: le bandiere che si possono impugnare sono tendenzialmente queste, nonostante le possibilità di esplorare questo mondo siano davvero sconfinate. Purtroppo creare valore da informazioni che ne hanno poco richiede un lavoro estremamente faticoso, ed è comprensibile che i più preferiscano sgomitare replicando i modelli che hanno funzionato - e in parte funzionano ancora.

Sta di fatto che il valore di un prodotto è direttamente proporzionale alla difficoltà con cui è possibile replicarlo. I commentatori lo sanno e sono costretti a perseguire messinscene sempre più colorate o identificative per ritagliarsi un proprio spazio e una riconoscibilità, perché a fare il pappagallo incollando le speculazioni di reddit & co. sui propri social son buoni tutti. In passato era tutto più semplice, e per mettere piedi in questo mondo e alzare fieramente lo sguardo sul pubblico bastava essere “ciccio”, “nonno” o - attenzione - una ragazza, rarità assoluta nel campo.

Ma i tempi cambiano, per fortuna e purtroppo, e abbiamo visto emergere sempre più convinto il culto della personalità, da esprimere costruendo sui tre archetipi citati un paio di paragrafi più su aggiungendo una spruzzata di saccenza da tuttologo, la baldanza da reginetta della scuola o quel tocco passivo-aggressivo che guasta il fegato di chi non apprezza, generando al tempo proseliti. L'influencer, che al tempo era un nemico, ora è un modello per esprimere la propria autorialità.

Anche qui, però, solo “uno su mille ce la fa”, mentre per tutti gli altri si prospetta lo spettro della dimenticanza, cominciando con la riduzione delle react sui social per passare alla fase in cui si nega l’interesse stesso verso il mondo del videogioco, corrotto senza speranza dal mercato che ha accolto nuova utenza e quindi non più degno della nostra attenzione - dopotutto se basta un ragazzino qualsiasi che urla davanti a una cam per far soldi, il problema non siamo noi, ma è IL SISTEMA.

Immaginiamo quindi il dissapore, l’insoddisfazione e il livore che va a condensarsi tra i vari 999 che non ce l’hanno fatta, i quali potrebbero (se volessero) staccarsi da questo mondo facilmente, ma che rimangono invece a spiare dalla porta socchiusa sapendo che grazie ai social basta il giusto colpo di coda per sentire di nuovo l’adrenalina scorrere, anche se dovesse essere l’ennesima illusione.

Queste persone che scalciano, si accavallano e sbraitano danno forma a un essere degno dell’immaginario di Carpenter, sgradevole alla vista e all’udito ma che è letteralmente impossibile ignorare, perché accoglie al suo sconclusionato interno frattaglie di un’utenza che comunque è… sempre utenza. E quella purtroppo serve come il pane, indipendentemente dalla sua qualità.

Abbiamo quindi assistito a una strana apertura da parte di organi di informazioni e creatori nei confronti delle “reazioni” verso notizie, contenuti o dichiarazioni, probabilmente nel tentativo di chiamare in causa proprio l’informe cosa che esprime pareri sconnessi, ma che è composta da tanti singoli dotati della capacità di cliccare, generando un circolo vizioso che autoalimenta il nulla assoluto.

Perché, parliamoci chiaro, scrivere una news per far sapere al pubblico che una manciata di utenti su Twitter non ha apprezzato qualcosa non è aprire alla discussione, ma è gettare una bistecca nella gabbia delle bestie affamate. Quindi a che serve? Non possiamo ignorarla questa gente? O forse la tentazione di trascinare tutti sulle proprie pagine è davvero così irresistibile? In effetti è molto più semplice che stendere un editoriale a più mani, magari coinvolgendo un esperto sul tema per superare le reazioni di pancia e imparare qualcosa di nuovo.

Il problema è che questo mostro sta rovinando la quotidianità di chi occupa il settore, che nota con grande frustrazione come questo livore trovi sempre più spazio e faccia un rumore capace di coprire le voci di chi prova - con pazienza e si spera competenza - a dire la sua. E se non fai attenzione, il mostro ti afferra prima che tu possa rendertene conto e ti trascina nel fondo con tutti gli altri.

Trovo davvero stucchevole e a tratti irritante la “lamentela sulle lamentele”, ovvero l’insofferenza da parte di tanti verso chi non contribuisce alla discussione se non con una critica feroce (non necessariamente costruita a dovere) verso ogni cosa. Comprensibile stufarsi del mostro alla lunga, ma questo è proprio cedere il fianco, per non dire “andarci a braccetto”.

Una critica spesso trova forza nella eco che le si offre piuttosto che nel suo effettivo valore, e un simile comportamento non fa altro che alimentarla permettendole di raggiungere un piano dell’esistenza altrimenti inaccessibile - perché trovarsi a parlare di “Aloy grassa” ovunque a causa di un tweet a caso è veramente la sconfitta della ragione.

La narativa più comune ci insegna però come sia più semplice creare un eroe passivo, o meglio “reattivo”, piuttosto che uno che prenda in mano l’iniziativa - perché ciò comporta che si abbia in mente un obiettivo, un percorso di crescita e magari anche un messaggio. Lasciare le redini in mano a un rivale, a un malvagio o proprio a un mostro che ci segue per tutti i 180’ del film ci semplifica il lavoro, enormemente.

Avere un nemico fa davvero comodo, ce lo insegnano la politica e la storia da sempre: la rivoluzione contro i soprusi, l’odio verso chi vuole toglierti qualcosa o farti del male, il risentimento nei confronti di chi ha sbagliato in passato. Un malvagio nemico da affrontare ti trasforma automaticamente in un eroe, anche se non lo sei, quindi basta impiegare le proprie risorse per dipingere questo bababu con un aspetto più terrificante possibile e in breve potremo costruire consenso su un mare di persone che sicuramente sono pronte a odiare chiunque tu stia indicando col dito giudicatore, ma probabilmente di te apprezzano un’immagine idealizzata e poco altro.

Come si esce dunque da questo incubo ricorrente? Come si sfugge agli artigli di un Freddy Krueger pronto a entrare nei nostri sogni anche se proviamo a sfuggirgli come fossimo in un film di Nolan? Dando per scontato che la critica, anche quella più scema, non si può zittire a prescindere perché ne va della credibilità stessa del settore, si può provare innanzitutto a dare meno peso a parole che vengono spese in uno scambio di opinioni che tratta, a conti fatti, di un passatempo.

Questo non per delegittimare l’importanza del medium (gigantesca sia a livello economico che culturale), anzi, proprio perché visto il valore del prodotto è un vero peccato sprecare tempo e risorse per inseguire le polemiche. Che ogni minuto dedicato a ricordare perché abbiamo litigato su Facebook all’uscita di The Last of Us 2 ormai 2 anni or sono è tempo rubato a una qualsiasi nuova uscita o a una discussione su The Last Worker.

Allo stesso modo però mi sento di spezzare una lancia in favore di chi di fronte a certi annunci si entusiasma e non sembra notare in alcun modo le criticità che invece si palesano ai nostri occhi. Come fanno a non vedere questo o quel problema? Saranno fanboy o semplicemente “stupidini” (come insegnava il buon Funari)? Non si rendono conto che l’appiattimento del senso critico a lungo termine è dannoso per la produzione tutta?

E se invece fosse chi critica a sbagliare, perché vede difetti dove non ci sono? Capiamoci, si tratta di un esercizio dai tratti simili alla dissertazione, che richiede di scendere a patti con il proprio fervore e fermarsi prima che entri in coppia la voglia di blastare - ad esempio - il primo ad affermare che tutto ciò che è stato generato da Final Fantasy VII Remake sia un’operazione sensata. Aiuto... è uno sforzo immenso, reggetemi un attimo.

Questo perché da sempre quello del critico videoludico è un mestiere accessibile senza una qualsivoglia certificazione, che non risponde a direttive precise, che non prevede di spuntare checkbox, che non si risolve in confronti diretti tra singoli prodotti. Sono passate ormai diverse generazioni da quando era possibile giudicare un titolo a seconda del numero dei livelli presenti, della fluidità della grafica e di quanto fossero grandi gli sprite, mettendo un bel votone grosso dopo aver utilizzato la prima metà del testo per la sinossi e la seconda metà per riportare quanto scritto nel manuale di istruzioni (non vi offendete, è un’iperbole - NdPietro).

I generi sono sempre di più, sempre più fluidi e indistinguibili, ed è possibile che perfino in categorie estremamente specifiche come quella dei “Metroidvania” si riescano a trovare tratti caratteristici divergenti tra i titoli che ne fanno parte, arrivando magari a ribaltare i ruoli di padri e figli perché l’evoluzione di un genere non passa solo ed esclusivamente dai progressi, a volte letargici, dei capostipiti, ma prosegue incessante tra le mani delle talentuose nuove leve di artigiani del pixel.

Magari i generi rigidi come li ricordavamo non esistono più e probabilmente ha ragione chi è (quasi) sempre contento, forse perché chi ha realizzato il gioco si augurava proprio di raggiungere l’entusiasta e non certo il criticone. Non importa se quell’action è troppo facile, se quel JRPG è strutturato a capitoli e missioni, se quel platform non ha collezionabili a nastro ma punta sulla trama: non esiste un “blueprint” per il gioco ideale e probabilmente non è nell’interesse dello sviluppatore di The Plucky Squire creare un gioco che piaccia a tutti, quindi perché ci accaloriamo così tanto nel criticare - anche in anticipo - una produzione?

Capisco bene che il ruolo della stampa sia quello di offrire un supporto critico in un settore che, come detto prima, non ha reali guide e non offre formazione in merito, ma tutti gli altri potrebbero benissimo fare un grosso respiro e prenderla come viene, con leggerezza. Che tanto non siamo obbligati a rispondere a ogni considerazione buttata in giro per il web né a rendere conto a tutti di un parere se questo non è esplicitamente espresso per ricercare un confronto.

L’invito è quello di pensare sempre a cosa si possa fare di buono nel trattare i videogiochi, soprattutto se non si è tra chi indiscutibilmente aggiunge valore a questo mondo realizzandoli e si è invece “confinati” al ruolo di intrattenitore o divulgatore. Perché il rischio è letteralmente quello di non lasciare nulla, né un segno né un reale cambiamento, diventando parte di un sistema che va avanti stancamente di generazione in generazione, inseguendo annunci come fossero farmaci indispensabili per tenersi in vita tra un trailer in esclusiva mondiale e una data di uscita che verrà spostata più in là a soli 2 mesi dal lancio.

Cerchiamo di essere protagonisti attivi, coloro che creano le storie, e non lasciamo che sia il puerile bailamme da social a guidare il nostro lavoro: il tempo è prezioso e va sfruttato per ricercare un valore aggiunto, qualcosa di realmente utile per l’utenza e permetta a noi di crescere come firme o appassionati. Le rivoluzioni sono fragorose, richiedono sacrifici e lasciano alle spalle macerie da ricostruire, mentre l’incedere delicato e costante di un corso d’acqua può, alla lunga, modellare un paesaggio migliore per tutti. Con una polemica in meno e un progetto in più, da condividere con il sorriso.