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La generazione degli open world

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Avatar di Antonio Rodo

a cura di Antonio Rodo

Pubblicato il 01/02/2021 alle 10:00

Le ormai pensionate PlayStation 4 e Xbox One - in realtà anche Nintendo Switch - hanno visto l’arrivo di moltissimi videogiochi caratterizzati da un mondo di gioco dalle dimensioni notevoli. Più che di un vero e proprio genere, però, si tratta di esperienze armate di una caratteristica, ossia di mondi giganteschi da esplorare a proprio piacimento.

Sostanzialmente, almeno per quanto ci riguarda, esistono tre tipologie di open world: qualitativi, quantitativi e al servizio della narrazione. Ecco cosa andremo a fare, quindi: analizzeremo ciascuna tipologia e guarderemo anche un po’ al futuro, provando ad indovinare dove andranno a parare le case di sviluppo grazie ai nuovi hardware decisamente più performanti degli scorsi.

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Gli open world qualitativi

Cominciamo dalle eccezioni, da quei titoli che, di tanto in tanto, prendono e stravolgono il mercato, settando nuovi standard. Ma quali caratteristiche deve avere un “open world qualitativo” per definirsi tale? Deve esserci un contenuto di altissima qualità e soprattutto non afflitto da una ripetitività asfissiante. In sostanza, se negli obiettivi di produzione c’è la volontà di far durare il prodotto più di 50 ore, devono necessariamente esistere 50 ore di vero contenuto, non uno schema di attività ben visibile sin dalle prime ore e statico fino ai titoli di coda.

Detto ciò, esistono tre videogiochi perfettamente calzanti, open world degni di esserlo e fieri di durare tantissimo; ci stiamo ovviamente riferendo a Zelda Breath of The Wild, Red Dead Redemption 2 e The Witcher 3: Wild Hunt. Queste tre esperienze, assolutamente diverse fra di loro, hanno, per motivi differenti, portato delle rivoluzioni nel mondo del gaming. Zelda, ad esempio, ha preso l’esplorazione classica degli open world e l’ha cestinata, lavorando su un sistema di movimento liberissimo. Inoltre, il gioco Nintendo fa sempre di tutto per risultare vario al giocatore; persino quando apriamo la mappa, segniamo un punto e decidiamo di raggiungerlo, si viene travolti da situazioni sempre diverse, come un temporale improvviso che ci obbliga a ripararci e rinunciare alle scalate. Anche i vari dungeon, all’apparenza semplici locazioni da raggiungere, stupiscono per il modo in cui il giocatore deve scovarne l’ingresso, spesso individuando il punto esatto dal quale paracadutarsi.

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Con Red Dead Redemption 2, invece, Rockstar Games ha messo in piedi un open world estremamente coerente e sfaccettato, ma soprattutto in grado di raggiungere un ritmo narrativo quasi estraneo per contesti di questo tipo. A tratti sembrerà quasi di star vivendo un titolo su binari e prodotto da Naughty Dog, ad oggi maestri assoluti nella narrazione e nella gestione dei ritmi (lo sappiamo, qualcuno avrà da obiettare a causa di The Last of Us Parte II). Narrazione a parte, però, stupisce tantissimo la quantità e la qualità delle missioni secondarie, le quali riescono ad abbattere quel muro che solitamente divide le attività in compiti primari e compiti secondari. Questo perché in Red Dead Redemption 2, tutto è sorretto da una cura sempre altissima, da quella sensazione costante di star vivendo un contenuto impacchettato con amore e cura. Inoltre, uno dei suoi più grandi meriti è quell’incredibile capacità di saper generare situazioni del tutto emergenti, provocate da una rapina andata storta, da un incontro casuale o dall’imprevedibile reazione dei passanti. Insomma, un colosso irrinunciabile.

Arriviamo poi a The Witcher 3, open world se vogliamo un po’ diverso dagli altri, dato che la mappa è divisa in gigantesche macro-aree, ma pur sempre meritevole di rientrare in questa categoria e, ancora una volta, per motivazioni differenti.

Nel lavoro di CD Projekt RED appare incredibile come, anche la più sciocca delle attività secondarie, ad esempio le cacce ai mostri, sia capace di raccontare una bella storia, di lasciare qualcosa. E se a questo aggiungiamo delle scelte multiple sempre su scala di grigio, quindi mai chiarissime, e un open world scritto e messo in piedi con varietà e coerenza, beh, capite bene perché abbiamo deciso di inserirlo in questa categoria.

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Gli open world quantitativi

In assoluto la formula più comune e abusata, probabilmente messa in piedi da Ubisoft con quel meraviglioso open world che risponde al nome di Far Cry 3. Ed è infatti proprio a causa di questo successo se oggi abbiamo un mercato invaso da esperienze che, probabilmente, con meno ore di gioco e magari seguendo uno sviluppo più lineare, sarebbero – forse - incredibilmente migliori. Tanto per farvi un esempio recentissimo, gioco che abbiamo avuto il piacere di raccontarvi nella nostra recensione, potremmo citarvi Assassin’s Creed Valhalla, titolo che, ad un certo punto, sembra non esaurirsi mai. Fa strano a dirlo, ma avremmo davvero voluto che durasse meno, ma molto meno, e non perché il gioco non ci sia piaciuto, del resto la recensione parla chiara, ma perché sarebbe stato ancora più bello.

Diamo sempre la colpa ai grandi publisher e agli sviluppatori, quando la verità è che, questi giochi così grossi e interminabili, li abbiamo voluti proprio noi. Smettiamola di credere che un videogioco vale 70 euro solamente se presenta almeno 50 ore di gioco, perché non è assolutamente così. Anche perché, come può il prezzo pieno essere giustificato da 35 ore di gioco allungate il più possibile per toccare quota 70 ore? Cento volte meglio uno Shadow of the Colossus o un The Last Guardian che, con le loro dieci ore, ti lasciano anche qualcosa.

In merito a degli esempi da riportare, beh, crediamo sia inutile farlo: dagli Assassin’s Creed, Far Cry, Days Gone a Spider-Man, il mondo dei videogiochi è veramente pienissimo di mondi costruiti seguendo uno schema chiarissimo sin dalle prime battute e che continua allo stesso modo per tutta la durata, senza preoccuparsi di dare una sterzata al ritmo e schierare idee nuove.

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Gli open world al servizio della narrazione

Oh, eccoci arrivati alla categoria preferita del sottoscritto, non tanto perché non apprezzi le altre, sia chiaro, quanto invece perché l’open world davvero degno di esserlo è parecchio difficile da mettere in piedi, e per non ritrovarmi per le mani l’ennesimo gioco che riempie la mappa di segnalini da completare, preferisco, piuttosto, giocare ad un titolo che vuole prima di tutto raccontarmi una storia, una trama che, però, ha bisogno di un open world per essere raccontata.

I giochi che nascono con questo scopo sono pochi, purtroppo; mi vengono in mente i Mafia, escluso il tre, o il meraviglioso L.A. Noire. Esperienze curatissime nel world design e che mi hanno tutte lasciato qualcosa, quindici/venti ore di gioco da vivere senza alcuna frustrazione o noia (a patto di essere catturati dal contesto o dalla narrazione, ovviamente).

Concedetemelo, è proprio il caso di chiudere questo paragrafo facendo un appello a tutti gli sviluppatori: quando avete per la mente un contenuto che fatica esplicitamente a superare le venti ore, piuttosto che forzare la mano, adottate questo stile e utilizzate il tempo extra per affinare le meccaniche di gioco. L'esperienza durerà sicuramente meno, ma sarà più bella.

Il futuro degli open world

Per quanto ci riguarda è un argomento che potrebbe tranquillamente meritare un articolo separato, quindi cercheremo di non tirarla troppo per le lunghe. Ciò detto, da PlayStation 5 e Xbox Series X vorremmo degli open world più interattivi e credibili. Ci spieghiamo meglio: nella passata generazione abbiamo avuto a che fare con mondi sicuramente meravigliosi, ma a tratti solamente belle cartoline. In futuro ci auguriamo che il tutto diventi più interattivo, che gli sviluppatori seguano quanto fatto da Rockstar Games con Red Dead Redemption 2 e si spingano anche oltre. Sarebbe bello, ad esempio, avere a che fare con NPC credibili nelle loro routine, anche a costo di vedere sempre alcune persone gironzolare per le stesse vie, magari perché abitano da quelle parti. Un’altra caratteristica ben accetta sarebbe la presenza di molte strutture esplorabili dall’interno, magari costruite principalmente per ragioni narrative, ma che rimangono accessibili anche in un secondo momento, così da poterli sfruttare per creare situazioni emergenti, ad esempio una fuga dalla polizia. Ultima caratteristica, manco a dirlo: ci auguriamo davvero di non rivedere più una gestione caotica dei contenuti e una così netta differenza qualitativa tra le missioni principali e quelle secondarie.

Insomma, l’open world classico merita una bella pausa, forse il pensionamento, cedendo il posto ad esperienze più curate e condensate.

E voi cosa ne pensate?

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