L'industria europea delle batterie, un tempo orgogliosa della sua promettente stella Northvolt, si trova oggi ad affrontare un drammatico momento di crisi. Il colosso svedese, che ambiva a diventare il principale produttore di batterie del continente, sta attraversando quella che potrebbe essere la sua fase terminale. A meno di un intervento salvifico da parte di un acquirente, l'azienda interromperà completamente la produzione entro giugno, segnando il tramonto di quello che doveva rappresentare il baluardo europeo nell'indipendenza tecnologica per la mobilità elettrica.
L'ultimo avamposto produttivo rimasto attivo è lo stabilimento di Skelleftea, nella Svezia settentrionale, dove vengono ancora realizzate celle per i camion elettrici di Scania. Ma il conto alla rovescia è già iniziato. Il 22 maggio, il direttore operativo Matthias Arleth ha tenuto una riunione in streaming con i 900 dipendenti ancora attivi, comunicando l'amara verità sulle prospettive aziendali. I vertici, pur mantenendo un comprensibile riserbo sui dettagli, hanno confermato che si è trattato di un necessario aggiornamento per tutti i soggetti coinvolti in questa difficile fase.
La parabola discendente di Northvolt rappresenta un caso emblematico delle difficoltà che l'Europa incontra nel consolidare una propria autonomia nel settore delle batterie. Il tribunale svedese ha nominato a marzo un curatore fallimentare con il compito di trovare potenziali acquirenti per gli asset aziendali, ma finora nessuno si è fatto avanti con proposte concrete. Un silenzio assordante che parla più di mille parole sulla complessità della situazione.
La crisi non ha colpito solo l'azienda, ma rischia di travolgere un intero ecosistema industriale. La municipalità di Skelleftea ha investito circa 10 milioni di euro per creare infrastrutture e condizioni favorevoli a supporto di Northvolt, vedendo nell'azienda un catalizzatore economico per l'intera regione. Senza questo perno centrale, tutto l'indotto rischia ora di collassare, moltiplicando l'impatto sociale ed economico del fallimento.
Le ragioni di questa caduta sono da ricercare su più fronti. Da un lato, il mercato dell'auto elettrica ha mostrato segni di rallentamento negli ultimi anni, riducendo la domanda globale di batterie e creando un contesto commerciale più difficile. Dall'altro, difficoltà tecniche e ritardi produttivi hanno impedito all'azienda di onorare puntualmente le commesse ricevute, danneggiando sia i bilanci che la credibilità presso clienti e investitori.
La montagna di debiti accumulata rappresenta forse l'ostacolo più formidabile per qualsiasi operazione di salvataggio. Northvolt deve fronteggiare passività per circa 10 miliardi di euro, una cifra che farebbe tremare anche i soggetti industriali più solidi. Questa zavorra finanziaria rende estremamente complessa qualsiasi ipotesi di acquisizione, anche per player dotati di significative disponibilità economiche.
Un barlume di speranza potrebbe venire dall'Oriente. Robin Zeng, miliardario fondatore del colosso cinese CATL, ha recentemente dichiarato di essere in contatto con alcuni creditori per esplorare possibili modalità di intervento a supporto di Northvolt. Tuttavia, lo stesso Zeng ha sottolineato come la questione sia tutt'altro che definita, lasciando intendere che anche per un gigante come CATL l'operazione presenterebbe notevoli complessità.
La tecnologia sviluppata da Northvolt, incluse le promettenti batterie agli ioni di sodio, rappresenta un patrimonio industriale che rischia di essere disperso o, peggio, acquisito da competitori extra-europei. Questo scenario metterebbe ulteriormente a rischio la già fragile autonomia tecnologica del continente in un settore considerato strategico per la transizione energetica e la mobilità del futuro.
Il tempo stringe per Northvolt. Senza un intervento risolutivo nelle prossime settimane, giugno potrebbe segnare non solo la fine di un'azienda, ma anche il tramonto di una visione industriale europea nel campo delle batterie (ma le wallbox continueranno a servire). Una lezione amara su quanto sia difficile costruire campioni continentali in settori ad alta intensità di capitale e tecnologia, specialmente quando si compete con player globali già affermati e sostenuti da politiche industriali aggressive.