L'industria dell'intelligenza artificiale si trova oggi di fronte a un paradosso interessante: i suoi stessi leader stanno lanciando allarmi sempre più forti sui rischi occupazionali che le loro tecnologie potrebbero generare nel breve termine. Mentre economisti e ricercatori accademici mantengono un approccio più cauto basato sui dati storici, i CEO delle principali aziende AI dipingono scenari spaventosi per il mercato del lavoro entro i prossimi cinque anni. Questa divergenza di prospettive solleva interrogativi cruciali sulla reale portata della trasformazione in corso e sulle motivazioni dietro queste previsioni apocalittiche.
Dario Amodei, amministratore delegato di Anthropic, ha recentemente dichiarato ad Axios la sua preoccupazione che l'intelligenza artificiale possa eliminare la metà dei lavori impiegatizi di primo livello entro cinque anni. Durante la prima conferenza per sviluppatori dell'azienda, Code with Claude, Amodei ha suggerito che la disoccupazione potrebbe raggiungere il 10-20% nei prossimi anni. "Noi, come produttori di questa tecnologia, abbiamo il dovere e l'obbligo di essere onesti su quello che sta arrivando", ha affermato, criticando quella che considera una tendenza dei politici a "addolcire" la realtà del cambiamento dell'occupazione guidato dall'AI.
Le preoccupazioni di Amodei emergono in un contesto già complesso per il mercato del lavoro americano, caratterizzato da minacce di tariffe massive sui beni importati, licenziamenti destinati a correggere le assunzioni eccessive dell'era pandemica e politiche che tendono a favorire i datori di lavoro a scapito dei lavoratori. L'amministrazione Trump ha infatti eliminato con un ordine esecutivo le regole di sicurezza AI dell'era Biden, adottando una politica di sostegno incondizionato agli accordi infrastrutturali nel settore.
La visione del mondo aziendale
Il World Economic Forum nel suo Future of Jobs Report 2025 conferma parzialmente queste preoccupazioni attraverso un sondaggio condotto su circa 11.000 dirigenti. I dati mostrano che quasi la metà delle organizzazioni prevede di riorientare i propri modelli di business verso nuove opportunità guidate dall'AI, mentre il 47% pianifica di trasferire i dipendenti da ruoli compromessi dall'intelligenza artificiale ad altre posizioni. Tuttavia, una quota significativa del 41% si aspetta anche di ridimensionare la propria forza lavoro man mano che le capacità dell'AI di replicare i ruoli si espandono.
Il rapporto evidenzia che i lavoratori possono aspettarsi che due quinti delle loro competenze esistenti vengano trasformate o diventino obsolete nel periodo 2025-2030. Questa trasformazione, tuttavia, non rappresenta necessariamente una novità storica: l'adozione di nuove tecnologie ha sempre richiesto ai lavoratori di acquisire nuove competenze quando la tecnologia rimodella la società.
Arvind Krishna, CEO di IBM, offre una prospettiva diversa raccontando al Wall Street Journal come, nonostante l'ampio utilizzo di AI e automazione nei flussi di lavoro aziendali, l'occupazione totale in IBM sia effettivamente aumentata.
"Quello che fa è darti più investimenti da mettere in altre aree", spiega Krishna.
È interessante notare, tuttavia, che le nuove posizioni lavorative create dall'AI in IBM sembrano concentrarsi al di fuori degli Stati Uniti, in località con salari più bassi come l'India.
Il contrappunto accademico
La comunità accademica mantiene un approccio decisamente più prudente rispetto alle previsioni catastrofiche di Amodei. Un recente studio intitolato Artificial Intelligence and the Labor Market, condotto da economisti di Yale, Northwestern e MIT, ha rilevato che l'AI ha avuto finora un impatto limitato sul lavoro grazie alla capacità di adattamento del mercato.
"Nel complesso, troviamo effetti attenuati dell'AI sull'occupazione a causa di effetti compensativi", concludono gli autori, spiegando che mentre le professioni altamente esposte sperimentano una domanda relativamente inferiore, l'aumento risultante della produttività aziendale aumenta l'occupazione complessiva.
Dimitris Papanikolaou della Northwestern University's Kellogg School of Management sottolinea una distinzione cruciale:
"Le persone tendono a pensare che se un lavoro è esposto all'AI, significa che l'AI farà il mio lavoro e poi rimarrò senza lavoro. Il punto che stiamo cercando di fare è che, beh, non necessariamente".
Secondo Papanikolaou, ciò che conta è la misura in cui l'AI può svolgere tutti i compiti che un determinato lavoro comporta, non solo l'esposizione media.
Anders Humlum ed Emilie Vestergaard, in uno studio sui chatbot AI in Danimarca tra il 2023 e il 2024, hanno scoperto che questi strumenti hanno avuto quasi nessun impatto su 11 diverse professioni. Humlum commenta le previsioni di Amodei definendole "stimolanti e certamente degne di considerazione", ma ricorda che "abbiamo ora sperimentato due anni e mezzo con i chatbot AI che si diffondono ampiamente nell'economia, e quando guardiamo i dati, questi strumenti non hanno davvero fatto una differenza significativa nell'occupazione o nei guadagni in nessuna professione".
La prospettiva storica offre ulteriori elementi di riflessione: anche le tecnologie più trasformative come il vapore, l'elettricità e il computer hanno impiegato decenni prima di avere un impatto su larga scala sull'economia. Inoltre, anche quando queste tecnologie hanno trasformato drammaticamente la produzione, non hanno causato disoccupazione di massa nel lungo periodo.
Di fronte a tanta incertezza e disaccordo sugli effetti a lungo termine dell'AI sull'occupazione, la domanda che emerge è perché Amodei scelga di esporsi con previsioni così audaci. Dal punto di vista del marketing, non fa mai male ritrarre il proprio prodotto come quasi magico nelle sue capacità di cambiare il mondo, e potrebbe anche aiutare a garantire a lui e alla sua azienda un posto al tavolo delle discussioni normative.