I metroidvania sono così tanti, eppure Metroid è ancora un unicum

Nonostante alcune basi comuni, quello dei metroidvania è un genere ormai talmente vasto da comprendere produzioni anche molto diverse tra loro; in questo panorama Metroid, una delle ispirazioni principali, fa ancora storia a sé

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a cura di Fabio Canonico

Il momento nel quale per la prima volta Samus Aran si avventura nelle profondità di Zebes, alla caccia dei pirati spaziali guidati da Mother Brain, non è solo quello che apre una gloriosa serie, Metroid, ovviamente, ma è anche assolutamente iconico, perché in quei pochissimi secondi contiene l'essenza di quello che sarebbe poi diventato un vero e proprio genere. Samus è, prima di tutto, sola, ultima risorsa alla quale la Federazione Galattica si è appellata per risolvere una situazione che sembra irrecuperabile; i suoi passi risuonano nelle oscure caverne che attraversano il cuore del pianeta, i colpi del suo braccio cannone riecheggiano nelle stanze di metallo della base dei suoi nemici, l'ambientazione non la atterrisce, ma la inquieta, la opprime; non ha una direzione chiara da seguire, in questo mondo così vasto e annichilente, la sua è un'esplorazione faticosa, progressiva, che spesso la porta anche a tornare sui suoi passi, lì dove è già stata ed è nascosto qualcosa che precedentemente non è riuscita a scoprire.

La traduzione di questi elementi in dinamiche ludiche è efficacissima. Oggi i primi due Metroid sono produzioni quasi irricevibili (per darvi un'idea, il primo non ha una mappa, e a un certo punto si procede quasi grazie solo al wall bombing, ovvero al piazzare bombe sui muri sperando che si aprano nuove vie), ma Super Metroid, Metroid Fusion e Metroid: Zero Mission (rispettivamente il terzo e il quarto capitolo della serie e il remake del primo) rappresentano una tripletta irrinunciabile per qualità ludica, pur dosando differentemente gli elementi definitori: per complessità della mappa il videogioco per SNES è superiore agli altri e grazie a essa mette in campo un'esplorazione impegnativa e sfidante, ma sente anche maggiormente il peso degli anni (classe 1994, d'altronde); dei due per Game Boy Advance Fusion ha un'atmosfera eccezionale, mentre Zero Mission è fondamentale per riscoprire le basi, anche narrative, della saga intera.

Questi sono i capitoli più canonici della serie, il cui più grande successo è stato quello di aver saputo instradare in dinamiche e meccaniche del tutto proprie (e nell'averle fatte evolvere nella tridimensionalità della trilogia Prime) quella che comunque era una caratteristica magari non comune, ma comunque nemmeno rara di molti videogiochi dell'epoca, ovvero l'esplorazione non lineare. In Metroid questa si esplica attraverso una serie di stanze collegate tra loro, con porte e passaggi che possono essere aperti solo a patto che si sia in possesso dell'armamento o del potenziamento necessario: di fronte a un apparente vicolo cieco, e accadrà spesso di imbattervisi nel corso dell'avventura, occorre cambiare strada, provare altri percorsi, scandagliare il più possibile luoghi già visitati. Due sono sempre state le cose che maggiormente mi hanno sempre entusiasmato dell'esperienza tipica di Metroid: la prima è che spesso la progressione passa per un piccolo e apparentemente insignificante quadratino della mappa, secondo una dinamica che può apparire frustrante (e occasionalmente lo è), ma che provoca anche enorme soddisfazione nel momento dello svelamento del nuovo percorso; la seconda è la ricorsività del level design, un intrico il cui dipanarsi passa per momenti nei quali si esclama “ah, ecco come si arrivava qui”, “cavolo, sono riuscito in questo esatto posto”. Ed è un qualcosa che appartiene in maniera imprescindibile alle avventure di Samus, più che ai suoi mille altri congeneri.

Nel momento in cui qualcuno ha provato infatti a fare qualcosa di simile a Metroid è stato infatti facile associarlo alla serie Nintendo, con una comparazione, anche terminologica, sicuramente utile per avere un'idea generale della ludica, ma secondo me poco azzeccata. Quel qualcuno si chiamava Konami e quel qualcosa Castlevania: Symphony of the Night, ovviamente: il primo metroidvania. Il gioco diretto da Toru Hagihara e Koji Igarashi prende da Metroid gli elementi della mappa aperta e della non linearità, da risolvere attraverso l'ottenimento di potenziamenti di vario tipo, ma li declina in una maniera totalmente diversa. La progressione è più chiara perché il level design è molto meno complesso: non dialoga con il giocatore in ogni singola stanza, ma quasi ragiona per macroaree. Che sono composte da molteplici stanze collegate in diversi modi, certo, ma il cui attraversamento è sovente solo tale, non sinonimo di esplorazione e scoperta.

Non necessariamente una delle due interpretazioni della mappa aperta è migliore dell'altra, hanno semplicemente un respiro, un ritmo e una progressione diversa, però sicuramente quella dei Castlevania bidimensionali da Symphony of the Night in poi è più universale, ed è forse proprio per questo che la sconfinata produzione appartenente al genere dei metroidvania afferisce maggiormente al titolo per PlayStation, piuttosto che a Metroid. Per certi versi Symphony of the Night è stato più seminale, perché ha generato una folta schiera di titoli di simile impostazione, mentre i capitoli della serie Nintendo sono ancora degli unicum, al cui level design è stato difficile avvicinarsi sia per struttura che per qualità.

Oggi sembra difficile immaginarlo, ma dieci anni fa altri metroidvania praticamente non esistevano e non ricordo nemmeno se si usasse il termine, a dire il vero. Cave Story, uno degli indie più importanti di sempre, soprattutto dal punto di vista storico, proponeva nel 2004 una progressione non lineare in un mondo bidimensionale, ma con una mappa non paragonabile per complessità a quelle delle due grandi serie ispiratrici; La Mulana (2006 la prima versione, e anch'esso nella storia della scena indipendente) era persino più intricato del più complesso dei Metroid, ma troppo forse, e sicuramente non ugualmente ricercato nel level design; Shadow Complex, nel 2009, riattizzò la scintilla dell'interesse verso l'action adventure a mappa aperta, ma questa sarebbe diventata un incendio solo con l'esplosione definitiva delle produzioni indie.

I due Axiom Verge, Bloodstained: Ritual of the Night, Blasphemous, Dead Cells, i due Guacamelee, Hollow Knight, Iconoclasts, Ori and the Blind Forest e Ori and the Will of the Wisps, Shantae and the Pirate's Curse, SteamWorld Dig 2, The Messenger, e quanto si potrebbe continuare ancora. Il giocatore amante dei metroidvania oggi ha solo che l'imbarazzo della scelta, tra tante produzioni di così elevata fattura, ma con strutture di gioco talmente diverse che è quasi difficile racchiuderle nello stesso genere. Pensiamo a Dead Cells, per esempio, ai suoi biomi generati proceduralmente che sono più livelli che aree di una mappa organica; anche i due Ori, nella loro anima platform, a un'analisi più attenta rivelano una progressione non lineare, certo, ma nemmeno intricata, e davvero ci sono poche ragioni per tornare in aree visitate precedentemente; The Messenger è un metroidvania solo nella sua seconda metà, e sempre in una maniera più platform che adventure: Axiom Verge è forse quanto più assomiglia a un Metroid, tanto nella ludica quanto nella sensazione di angosciante isolamento che trasmette.

E poi c'è Hollow Knight, che merita una menzione particolare sia perché è diventato il metroidvania più popolare di sempre, giocato e noto anche al di fuori della cerchia degli appassionati, sia perché ha davvero un'interpretazione tutta sua del genere. Ne è la più lampante evidenza la sua colossale mappa, la cui esplorazione segue il modello à la Super Metroid, senza indicazioni alcune, ma la cui vastità genera nel giocatore smarrimento, piuttosto che inquietudine, malinconia, piuttosto che oppressione. Nelle sue grandi aree non si ritrova un level design ricorsivo e avvolgente perché sarebbe stato impossibile implementarlo, viste le dimensioni del tetro mondo di gioco; ci sono scorciatoie, certo, passaggi verso nuove zone che richiedono il possesso di certe abilità, come da tradizione, ma vengono percepiti più come ostacoli posti lungo un cammino triste e tortuoso, che come risoluzioni e vie d'accesso di loop circolari.

C'era quindi una domanda che molti si ponevano, prima della pubblicazione di Metroid Dread, il nuovo capitolo della serie, atteso da 19 anni: “come farà a emergere in questo mare di metroidvania, dalla così elevata qualità?”. Una risposta esaustiva ve l'ha data il nostro Andrea Maiellano, nella sua recensione, ma concedetemene anche a me una. Lo fa, ancora una volta, grazie a una progressione di gran classe, permessa da un level design forse mai così denso, permeante, intrigante, che rende sfidante sostanza ludica una mappa vasta quanto basta. C'è un senso di misura alla base di ogni Metroid bidimensionale che spesso chi è estraneo alla serie scambia per limitatezza: Dread più di ogni altro sembra essere calibrato al millimetro, scompaiono le rigidità di Super così come i momenti di linearità di Fusion e Zero Mission. Non solo: questi ultimi si permettevano, addirittura, di indicare al giocatore il luogo da raggiungere, facendolo lampeggiare sulla mappa. Il titolo per Nintendo Switch, invece, lascia Samus in totale balìa del pianeta ZDR, tornando alle origini, allo spaesamento della seconda missione su Zebes, su SNES.

Non sono gli unici, ma sono questi i motivi per i quali il nuovo capitolo è fieramente rappresentativo dell'identità della serie, un'identità forte, radicata e ancora ludicamente rilevante, nonostante l'affollato panorama di congeneri. Metroid è, ancora, un unicum difficilissimo da raggiungere e imitare, figlio di nessuno se non di se stesso.

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