«I videogiochi sono violenti». Sì, e allora?

Si parla spesso del legame tra videogiochi e violenza, ma non abbastanza di quanto il tutto avvenga per una ragione: comunicare.

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a cura di Michele Pintaudi

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Il mondo dei videogiochi è un'ecosistema ricco di sfumature, particolari ed esperienze tutte da scoprire. Già, esperienze: è questo che oggi sono diventati tutti i prodotti appartenenti al medium videoludico, con la conseguente possibilità di dare vita a tantissime riflessioni sul significato di questi cambiamenti. Il tutto ha chiaramente portato a una vera e propria esplosione a livello culturale dell'intero fenomeno, che soprattutto negli ultimi anni è entrato sempre di più a far parte dell'immaginario collettivo.

Il videogioco è cultura, e in quanto tale è spesso e volentieri bersaglio di critiche non sempre motivate a dovere. Quante volte, ad esempio, abbiamo sentito dire che "è colpa dei videogiochi"? Tante, troppe. Le ragioni sono varie, e spesso e volentieri hanno origine da una profonda e radicata disinformazione di base. Agire però è possibile, anche solo per limitare i danni che alcune concezioni potrebbero portare a tutto ciò che il videogioco rappresenta oggi. Ed è proprio questo che vogliamo fare con questo articolo, cominciando come sempre da un piccolo salto indietro.

Ma... I videogiochi sono violenti?

Cominciamo rispondendo a questa semplice quanto spesso inopportuna domanda. Sì, i videogiochi possono essere anche molto, molto violenti. Alcune opere si basano anzi quasi esclusivamente su questo aspetto, affrontando la tematica talvolta in modo estremo ed esasperato.

Pensiamo alla serie Grand Theft Auto, da sempre al centro di fortissime polemiche legate ai formati e ai linguaggi utilizzati. Ogni capitolo della serie è di fatto un gioco violento, dove l'utente può dare sfogo alla propria fantasia avendo a disposizione un arsenale di armi e veicoli davvero incredibile... E da usare come meglio crede. La libertà quasi totale è il focus dell'esperienza, e questo fa sì che ognuno possa vivere la propria avventura come meglio crede. In tutto ciò le storie narrate sono ricche di momenti in cui ci si spinge davvero all'estremo (pensiamo alla scena di tortura in GTA V), ma come vedremo nulla è mai davvero lasciato al caso.

Un altro esempio spesso citato è quello della missione "No Russian" in Call of Duty: Modern Warfare 2, finita nell'occhio del ciclone mediatico e in seguito censurata in diversi stati. Il giocatore si trova qui a compiere una vera e propria strage, senza pietà e senza troppe spiegazioni: Call of Duty racconta da sempre storie di guerra, di conflitti e di quanto l'esperienza bellica possa cambiare l'essere umano, e qui ha forse raggiunto il livello più alto in assoluto. Almeno da quel punto di vista.

Negli ultimi anni sono poi sempre più comuni notizie connesse ad atti di violenza di vario genere - da abusi a, purtroppo, omicidi - che vengono sistematicamente associate all'uso di videogiochi. Spesso sono i media a scagliarsi contro titoli particolarmente violenti, ma a volte anche la classe politica non ha disdegnato qualche presa di posizione di dubbia utilità. Il risultato finale è un contesto culturale dove il gaming è troppo spesso affiancato a un mondo che non lo riguarda, nella maniera più assoluta. Torniamo ora ai nostri due esempi.

GTA è violento, Call of Duty è violento. E su questo dubbi non ce ne sono, giusto? Ma non si tratta forse di opere di finzione? La violenza può e a volte deve necessariamente essere parte di prodotti di questo genere, proprio perché parte integrante dell'esperienza complessiva. Il tutto va chiaramente contestualizzato, e nelle due casistiche riportate questo avviene in maniera corretta e sistematica. In Grand Theft Auto troviamo spesso un tono ironico e fortemente satirico, col quale Rockstar critica le mille contraddizioni della società americana e non solo. In Call of Duty si racconta l'orrore della guerra, e l'uso di determinati linguaggi è perciò inevitabile. Un processo a dire il vero abbastanza semplice da comprendere, che ha anch'esso inizio da molto lontano.

Questione di... Cultura!

La storia è piena di casi in cui opere di un certo tipo sono state bollate come "violente" quando, in realtà, avevano il solo intento di comunicare un messaggio particolare. E questo vale per quadri, sculture, libri e persino per un semplice graffito impresso sul muro di una città. Volendo farla ancora più semplice, possiamo ragionare in ottica di quei media contemporanei che tutti noi viviamo quotidianamente: il cinema e la musica, ad esempio.

La violenza nel cinema è qualcosa che esiste praticamente da sempre, e che rappresenta per alcuni registi il vero e proprio carattere che li contraddistingue. Viene quasi spontaneo riportare una frase di Quentin Tarantino, in risposta a chi lo accusava di produrre solo pellicole violente: «Una persona sa cosa va a vedere, sarebbe come andare a un concerto dei Metallica e chiedere a quegli stronzi di abbassare il volume».

I linguaggi utilizzati da Tarantino hanno infatti un loro perché, così come li può avere un'opera potente come Madre! di Aronosfky o come Arancia Meccanica di Kubrick. Parlando di musica, pensiamo poi alla scena rap americana: quanta violenza c'è nei testi di Kendrick Lamar? Tantissima, ed è la narrazione cruda e quanto mai reale di una società che in molti di noi spesso fingono di non vedere. Un racconto che, peraltro, gli è anche valso un Premio Pulitzer per l'album del 2017 DAMN.

La violenza è insomma presente in musica, cinema, serie TV e opere d'arte di qualsiasi genere, e il videogioco non fa assolutamente eccezione. Ed è giusto così. Più che una forma di intrattenimento, il medium videoludico dev'essere visto al pari degli altri con il suo ruolo ben definito: comunicare, veicolando messaggi anche in maniera estrema. Come per qualsiasi altra cosa l'importante è comprendere dove e come trovare quei limiti da non valicare, e non si tratta di limiti legati all'opera in sé e per sé: parliamo infatti di aspetti appartenenti piuttosto alle singole persone.

Il problema sorge nel momento in cui un individuo o un gruppo non riesce a capire il legame tra videogiochi e violenza, e a interpretare nella maniera giusta il concetto e i linguaggi in cui li troviamo correlati. Se anche la violenza si dovesse presentare in maniera del tutto decontestualizzata all'interno di un videogioco, non è detto che non si tratti semplicemente di un titolo creato apposta per provocare o banalmente per intrattenere in un certo modo. Postal e Hatred sono solo due esempi di prodotti del genere, e anch'essi possono senza ombra di dubbio avere la loro ragione di esistere e di avere un loro seguito nella community del videogioco. Alla fine si tratta pur sempre di finzione e no, spendere qualche ora su un passatempo del genere non ha mai costituito un pericolo reale per qualcuno. Se non, chiaramente, per la cosiddetta "integrità" di chi ancora non ha compreso che cosa sia davvero un videogioco.