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Red Dead Redemption 2, regia e fotografia al servizio del capolavoro firmato Rockstar Games

Analizziamo insieme il ruolo della regia nell'ultimo capolavoro di Rockstar Games: Red Dead Redemption 2.

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Avatar di Michele Pintaudi

a cura di Michele Pintaudi

Editor

Pubblicato il 02/11/2018 alle 14:00

Red Dead Redemption 2 è, a detta di molti, l’esperienza audiovisiva più completa che sia mai stata concepita. Un capolavoro con cui Rockstar Games è stata capace per l’ennesima volta di raccogliere il plauso congiunto di critica e pubblico: un’opera dunque imprescindibile, e che colpisce per l’enorme quantità (e qualità) di elementi che la caratterizzano.

Le avventure di Arthur Morgan e della banda di Dutch Van der Linde meritano dunque di essere vissute da chiunque, almeno una volta nella vita. Perché? Per il “semplice” fatto che, in un modo tutto loro, si sono rivelate in grado di coniugare la tradizione e la grande storia del filone western con qualcosa di mai visto prima. Anche soltanto a livello cinematografico il nuovo Red Dead Redemption è una perla davvero imperdibile, e oggi ci concentreremo proprio su questo punto.

L’evoluzione di un genere.

Il filone western si sa è uno dei più importanti nella storia del cinema e in generale della narrazione: sin dalla fine dell’Ottocento troviamo infatti diverse pubblicazioni, come le opere dello scrittore tedesco Karl May e, all’inizio del secolo seguente, “The Virginian” di Owen Wister. Un genere artistico che ha popolato forme differenti come pittura, letteratura, teatro e ha quindi prosperato nel media cinematografico: capostipite in tal senso è con tutta probabilità “The Great Train Robbery” di Edwin Porter, pellicola risalente addirittura al 1903.

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L’opera di Porter era però soltanto l’inizio di qualcosa che trovò la sua massima espressione tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta con l’avvento e l’affermazione del genere spaghetti-western. Tante, tantissime sono le produzioni risalenti a questi anni con una crescente popolarità dovuta al gran lavoro di maestri come il romano Sergio Leone.

Leggi anche Lo chiamavano Red Dead: com'era veramente il vecchio West?

Questi film saranno inoltre il trampolino di lancio per molti attori oggi leggendari come Clint Eastwood, Eli Wallach, Henry Fonda e Charles Bronson: il western insomma si era costruito una fama, era divenuto arte a tutti gli effetti.

Dopo un periodo di declino negli ultimi anni il genere ha trovato nuova linfa vitale in produzioni che fanno il verso ai grandi classici ma che, introducendo nuovi elementi, riescono sempre e comunque ad attirare una nuova fetta di pubblico pronta ad abbracciare un filone che ci sentiamo di definire immortale.

Fatta questa dovuta premessa spostiamoci ora nel mondo videoludico dove il western fa il suo debutto con The Oregon Trail, sviluppato nel 1971 e pensato come gioco educativo da diffondere nelle scuole americane. Un titolo storico che ha dato vita ad una lunga serie di produzioni ultima delle quali proprio il nostro Red Dead Redemption 2, terzo capitolo di quella che è forse la serie western più importante nel panorama del gaming.

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Se già nei suoi predecessori avevamo potuto ammirare tutta la bellezza del Vecchio West, nell’avventura di Arthur Morgan troviamo la maggiore affermazione del filone western a livello artistico in un videogioco.

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Un’affermazione che deve molto all’eredità lasciata dalle opere cinematografiche di cui abbiamo parlato, e delle quali andremo ad analizzare nel dettaglio le influenze in quello che è già considerato come uno dei titoli simbolo di questa generazione.

Lo stile di Red Dead Redemption 2.

Partiamo da un elemento che appare evidente sin dai primi minuti di gioco: una minuziosa e quantomai azzeccata cura dell’illuminazione, un carattere spesso tralasciato ma che concorre insieme a diversi altri per dar vita all’esperienza perfetta. Nell’immagine sottostante è evidente quanto Rockstar abbia deciso di puntare molto forte su questo dettaglio, e ora analizzeremo meglio il perché.

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I raggi del sole che penetrano i rami di un albero in una foresta con poca luce. Un’immagine che soltanto descrivendola a parole riesce ad evocare determinate sensazioni: questo è l’obiettivo di un’esperienza del genere. Con la sagoma del nostro protagonista appena abbozzata dall’effetto creato dalla controluce, tutto ciò appare ancora più marcato e con un risultato finale che rasenta la perfezione.

L’utilizzo della luce naturale, molto diffuso anche in tal genere a livello cinematografico, ricopre un ruolo legato non soltanto all’estetica ma anche e soprattutto alla narrazione e alla costruzione del contesto.

Leggi anche Red Dead Redemption 2 Guida: 12 cose da sapere prima di iniziare

Volendo sfociare anche nel campo della psicologia, dove il colore e la luce sono due elementi preponderanti nel definire l’emozionalità, possiamo addirittura azzardare come una determinata scelta cromatica spinga a rappresentare al meglio sia il personaggio da noi controllato che le figure che incontrerà nel suo cammino.

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Un risultato simile viene ottenuto, seppur in maniera diversa, all’interno di uno dei saloon presenti nel gioco. Si dà vita qui ad un connubio di tonalità che creano un’atmosfera oscura e di introspezione del personaggio, come possiamo vedere nell’immagine sovrastante. Tecniche del genere sono un must nel cinema western: si dà un’anima ai diversi personaggi, si definiscono i loro caratteri.

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Fondamentale è anche la scelta dell’inquadratura, che deve anch’essa trasmettere al giocatore (o spettatore) determinate sensazioni. In tal senso la regia in Red Dead Redemption 2 è davvero degna di un Premio Oscar: magistrale, quantomai adatta e capace di impattare senza nascondere la forte ispirazione figlia di anni e anni di esperienza cinematografica.

Il tutto è costituito da elementi di vario genere che, pur non rappresentando grosse novità, riescono a rendere il tutto un’esperienza sopra alle righe. Uno di questi elementi è l’utilizzo del formato 16:9 durante le cutscenes: nulla di nuovo come detto, ma perfetto nel favorire un sempre più marcato coinvolgimento dell’utente all’interno del mondo di gioco.

Le inquadrature servono inoltre a mostrare al pubblico le location, dotate di un forte carattere sia a livello di immersione che per quanto concerne il trasmettere emozioni. Mostrare ampi paesaggi che spaziano dalle zone boscose o paludose alle sterminate distese di deserto è un espediente narrativo che contribuisce a generare un solido impianto su cui basare la storia raccontata.

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L’ampia mappa del gioco viene dunque sfruttata in maniera funzionale alla storia, e se il passo tra una serata in compagnia al saloon di Valentine e una cavalcata tra le sterpaglie del New Hanover è breve, lo stesso non si può dire per la lenta ed efficace costruzione della trama. Red Dead Redemption 2 è dunque qualcosa che rappresenta il punto di convergenza tra vecchio e nuovo, rispettando la tradizione ed ereditando l’innovazione giunta negli ultimi anni, da "Per un pugno di dollari" a "The Hateful Eight". Insomma, c’è davvero di tutto in un prodotto che fa del citazionismo (indiretto) uno dei suoi caratteri meno marcati, ma sempre e comunque efficace.

Se affermare che trovarsi di fronte ad un prodotto che si avvicina molto ai capolavori di Sergio Leone può - comprensibilmente e pur tenendo conto del retaggio di opere di quel calibro - apparire assolutamente blasfemo, va comunque tenuto conto che Rockstar Games nel suo è riuscita a creare qualcosa capace di lasciare il segno. Red Dead Redemption 2 è l’esempio meglio riuscito di come la linea che separa cinema e videogiochi sia sempre più sottile, e di quanto i due media stiano pian piano assumendo sempre di più caratteri convergenti.

La speranza è che produzioni come questa diventino sempre più frequenti, in modo tale da consolidare anche agli occhi dei più scettici l’immagine di videogioco come forma d’arte, un ruolo che da diversi anni ormai gli spetta di diritto. Ecco a cosa servono, tra le altre cose, regia e fotografia in un’esperienza videoludica oggi.

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